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Ho insegnato che il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è la politica. Sortirne da soli è l’avarizia.
Don Lorenzo Milani
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Per molto tempo ho iniziato le mie conferenze con un’infografica sull’information overload, il sovraccarico informativo dovuto alla gigantesca quantità di dati che vengono scambiati online ogni minuto tra messaggi di WahtsApp, post di Facebook, ricerche su Google e altro. Iniziavo quelle conferenze sottolineando come le persone sempre più spesso si sentano schiacciate dalla mole di informazioni che ricevono rispetto a quelle che possono davvero recepire e interiorizzare.
Ritenevo che la sindrome FOMO, Fear Of Missing Out, la paura, cioè, di rimanere tagliati fuori dal flusso informativo, fosse una delle dinamiche fondamentali che caratterizzavano il nostro essere sempre connessi e sottoposti a continue notifiche provenienti da più piatta- forme e su diversi dispositivi.
Poi ho cambiato idea.
Mi ha illuminato in questo Antonio Pavolini con la sua correzione del FOMO in FOMI, ovvero in Fear Of Missing In: la questione non è tanto la paura di perdere delle informazioni rilevanti nel flusso in sovraccarico, quanto quella di non essere presenti al suo interno, cioè l’essere spinti in modo irresistibile a dire la propria in quel flusso proprio perché in esso stanno discutendo gli altri con cui si è collegati.
Sovraccarico di relazioni
In altre parole il problema non è solo che abbiamo troppi stimoli rispetto alla nostra capacità di interpretarli e metterli in ordine, ma anche che quegli stimoli ci si presentano più o meno intensi in base alle reazioni di coloro con cui siamo in connessione che sempre li accompagnano. Il sovraccarico infatti non è dato tanto dalla mole di dati, quanto dalla modalità con cui quelle informazioni ci raggiungono e ci spingono a reagire e a interagire con esse.
Non siamo monadi indipendenti e isolate che usano le loro capacità cognitive per mettere ordine nelle troppe informazioni. Siamo esseri umani altamente relazionali che vengono investiti e raggiunti da certe questioni perché qualcuno attorno sta reagendo rispetto ad esse. Ci piacerebbe essere distaccati e intenti a discriminare la falsità delle apparenze in favore della conoscenza attendibile, in realtà siamo animali sociali, coinvolti e dipendenti dagli input di chi ci sta attorno e intenti a districarci in essi perché quegli stimoli sono inseriti in relazioni che per noi hanno un peso.
È uno degli effetti della relazionalità esponenziale a cui la rete ci sottopone. A travolgerci non è un carico puramente quantitativo, ma qualitativo: le informazioni ci balzano all’occhio, attirando la nostra attenzione, soprattutto quando sono capaci di farci reagire.
La minaccia della differenza
Cosa è che ci fa reagire più di tutto e in modo immediato e di pancia? Di solito la differenza: quando ci appare davanti agli occhi qualcosa che rifiutiamo perché va contro i nostri valori fondamentali, tendiamo a sentire irresistibile la tentazione di dire la nostra. È questo uno dei motivi per cui in rete esiste una certa tendenza all’indignazione e al discorso contrapposto: inveire contro qualcosa è il metodo più a buon mercato per far emergere i propri contenuti e farli balzare all’attenzione nel sovraccarico grazie alle reazioni a loro volta indignate degli utenti.
In altre parole il sovraccarico di informazioni è inscindibilmente legato al fatto che esse tendono a raggiungerci “già litigate”, cioè spesso ci appaiono rilevanti proprio perché qualcuno vicino a noi sta avendo una reazione forte e violenta riguardo a esse. Più che di informazioni è soprattutto un sovraccarico di reazioni.
Per molto tempo ho iniziato le mie conferenze con un’infografica sull’information overload, il sovraccarico informativo dovuto alla gigantesca quantità di dati che vengono scambiati online ogni minuto tra messaggi di WahtsApp, post di Facebook, ricerche su Google e altro. Iniziavo quelle conferenze sottolineando come le persone sempre più spesso si sentano schiacciate dalla mole di informazioni che ricevono rispetto a quelle che possono davvero recepire e interiorizzare.
Ritenevo che la sindrome FOMO, Fear Of Missing Out, la paura, cioè, di rimanere tagliati fuori dal flusso informativo, fosse una delle dinamiche fondamentali che caratterizzavano il nostro essere sempre connessi e sottoposti a continue notifiche provenienti da più piatta- forme e su diversi dispositivi.
Poi ho cambiato idea.
Mi ha illuminato in questo Antonio Pavolini con la sua correzione del FOMO in FOMI, ovvero in Fear Of Missing In: la questione non è tanto la paura di perdere delle informazioni rilevanti nel flusso in sovraccarico, quanto quella di non essere presenti al suo interno, cioè l’essere spinti in modo irresistibile a dire la propria in quel flusso proprio perché in esso stanno discutendo gli altri con cui si è collegati.
Sovraccarico di relazioni
In altre parole il problema non è solo che abbiamo troppi stimoli rispetto alla nostra capacità di interpretarli e metterli in ordine, ma anche che quegli stimoli ci si presentano più o meno intensi in base alle reazioni di coloro con cui siamo in connessione che sempre li accompagnano. Il sovraccarico infatti non è dato tanto dalla mole di dati, quanto dalla modalità con cui quelle informazioni ci raggiungono e ci spingono a reagire e a interagire con esse.
Non siamo monadi indipendenti e isolate che usano le loro capacità cognitive per mettere ordine nelle troppe informazioni. Siamo esseri umani altamente relazionali che vengono investiti e raggiunti da certe questioni perché qualcuno attorno sta reagendo rispetto ad esse. Ci piacerebbe essere distaccati e intenti a discriminare la falsità delle apparenze in favore della conoscenza attendibile, in realtà siamo animali sociali, coinvolti e dipendenti dagli input di chi ci sta attorno e intenti a districarci in essi perché quegli stimoli sono inseriti in relazioni che per noi hanno un peso.
È uno degli effetti della relazionalità esponenziale a cui la rete ci sottopone. A travolgerci non è un carico puramente quantitativo, ma qualitativo: le informazioni ci balzano all’occhio, attirando la nostra attenzione, soprattutto quando sono capaci di farci reagire.
La minaccia della differenza
Cosa è che ci fa reagire più di tutto e in modo immediato e di pancia? Di solito la differenza: quando ci appare davanti agli occhi qualcosa che rifiutiamo perché va contro i nostri valori fondamentali, tendiamo a sentire irresistibile la tentazione di dire la nostra. È questo uno dei motivi per cui in rete esiste una certa tendenza all’indignazione e al discorso contrapposto: inveire contro qualcosa è il metodo più a buon mercato per far emergere i propri contenuti e farli balzare all’attenzione nel sovraccarico grazie alle reazioni a loro volta indignate degli utenti.
In altre parole il sovraccarico di informazioni è inscindibilmente legato al fatto che esse tendono a raggiungerci “già litigate”, cioè spesso ci appaiono rilevanti proprio perché qualcuno vicino a noi sta avendo una reazione forte e violenta riguardo a esse. Più che di informazioni è soprattutto un sovraccarico di reazioni.
La nostra onlife è quindi soprattutto caratterizzata da questo accorciamento delle distanze che tende a farci percepire costantemente vicine le nostre differenze. La percezione è che ciò che prima potevamo tenere fuori dai confini delle nostre zone sicure sia oggi invece costantemente invadente, ci arrivi nelle timeline e negli spazi connessi senza la nostra autorizzazione e senza che lo abbiamo cercato.
Vicini e frammentati
Come fa notare Manuel Castells in Comunicazione e potere, con la rete si assite alla “frammentazione più che alla convergenza”: più che la nascita di una cultura globale, la rete ha portato a osservare la diversità culturale come tendenza principale.
E la questione non è solo interculturale, ma si presenta anche nelle micro-interazioni che avvengono all’interno di una cultura omogenea. Perché la diversità, con la connessione, è diventata un aspetto ordinario della realtà.
È l’esperienza che ciascuno di noi fa continuamente nei gruppi di WhatsApp o nei commenti dei post sui social network: a emergere e a farla da padrone sono spesso le divergenze, i fraintendimenti, i dissapori derivanti da differenze di sensibilità, di linguaggio.
Come fa notare Manuel Castells in Comunicazione e potere, con la rete si assite alla “frammentazione più che alla convergenza”: più che la nascita di una cultura globale, la rete ha portato a osservare la diversità culturale come tendenza principale.
E la questione non è solo interculturale, ma si presenta anche nelle micro-interazioni che avvengono all’interno di una cultura omogenea. Perché la diversità, con la connessione, è diventata un aspetto ordinario della realtà.
È l’esperienza che ciascuno di noi fa continuamente nei gruppi di WhatsApp o nei commenti dei post sui social network: a emergere e a farla da padrone sono spesso le divergenze, i fraintendimenti, i dissapori derivanti da differenze di sensibilità, di linguaggio.
La differenza dell’altro grazie alla tecnologia digitale supera le barriere del “dove” (non c’è bisogno di stare vicini per sentirla addosso) e del “quando” (non c’è un momento specifico, ma potenzialmente siamo sempre raggiungibili da essa). La dimensione digitale ha acuito quei livelli di avvicinamento e accettazione delle differenze che la nostra epoca richiede molto più alti di qualsiasi altra epoca precedente.
Diversità aumentata
È quella che definisco diversità aumentata facendo il parallelo con la realtà aumentata: così come le tecnologie digitali ci permettono, attraverso un visore o un dispositivo collegato in rete, di vedere molte più informazioni della realtà rispetto all’occhio nudo, la diversità aumentata è quell’effetto per cui la connessione ci mette in una condizione di incontro/scontro amplificato con le differenze degli altri, che vengono percepite molto più vicine di quanto non sarebbero nella convivenza puramente fisica.
Questa diversità aumentata in cui siamo immersi può assumere la forma di un continuo difendersi dalla differenza oppure può essere una grande occasione di apertura e di allargamento di orizzonti. Tutto dipende da come l’essere umano iperconnesso si pone di fronte a essa. La nostra vita connessa può essere vissuta cogliendo l’opportunità di entrare in contatto con mondi, sensibilità e aspetti della realtà che altrimenti non raggiungeremmo, oppure si può disperdere nello stress di essere costantemente esposti alla carica emotiva ed esistenziale di interlocutori che stanno difendendo il loro mondo e il loro spazio vitale differente.
È quella che definisco diversità aumentata facendo il parallelo con la realtà aumentata: così come le tecnologie digitali ci permettono, attraverso un visore o un dispositivo collegato in rete, di vedere molte più informazioni della realtà rispetto all’occhio nudo, la diversità aumentata è quell’effetto per cui la connessione ci mette in una condizione di incontro/scontro amplificato con le differenze degli altri, che vengono percepite molto più vicine di quanto non sarebbero nella convivenza puramente fisica.
Questa diversità aumentata in cui siamo immersi può assumere la forma di un continuo difendersi dalla differenza oppure può essere una grande occasione di apertura e di allargamento di orizzonti. Tutto dipende da come l’essere umano iperconnesso si pone di fronte a essa. La nostra vita connessa può essere vissuta cogliendo l’opportunità di entrare in contatto con mondi, sensibilità e aspetti della realtà che altrimenti non raggiungeremmo, oppure si può disperdere nello stress di essere costantemente esposti alla carica emotiva ed esistenziale di interlocutori che stanno difendendo il loro mondo e il loro spazio vitale differente.
Una prova sociale costante
È come essere in ogni momento sottoposti a una sorta di prova sociale che consiste nel saper stare in continuo contatto con il dissenso, cioè con il diverso modo di sentire e di vedere le cose degli alti. E a questa prova non ci si può sottrarre. Come abbiamo visto, qualcuno sceglie di cancellarsi dai social o di ritirarsi in una specie di rifugio eremitico lontano dagli scambi online. Lo fanno singoli utenti, ma talvolta prendono decisioni simili anche organizzazioni e aziende.
Tali soluzioni in realtà sono solo palliativi: la diversità aumentata non dipende da una piattaforma o dai social in particolare, ma è il frutto della condizione di iperconnessione in cui siamo immersi e non è reversibile. Anche se si mette off su tutti i dispositivi, il mondo attorno continua a vivere e incidere sulla vita e sulle scelte dell’individuo anche se è disconnesso.
Se un’azienda si cancella dalle piattaforme, gli utenti continueranno lo stesso a scambiarsi commenti e giudizi sui suoi prodotti e servizi, e quei contenuti, fatti di idee, opinioni, obiezioni, incideranno sulle relazioni delle persone e, che piaccia o no, andranno a costruire o a deteriorarne la reputazione.
Lo stesso accade per ciascuno: tutti abbiamo fatto l’esperienza di quanto, in gruppi di WhatsApp con colleghi, amici o genitori di scuola, le conversazioni scomposte e poco proficue incidano su decisioni importanti per la nostra vita e per la vita dei nostri figli. Disconnettersi non le migliora né le rende meno rilevanti per la nostra vita, semplicemente ce le toglie da davanti agli occhi.
Il rifugio nei gruppi di opinioni omogenee
Da sempre, trovarsi d’accordo e riscontrare affinità è umanamente appagante: ci si riconosce, si sperimenta senso di appartenenza, ci si fa forza. Invece stare nelle differenze è faticoso: richiede ascolto, elaborazione, articolazione del pensiero e delle emozioni. Non sorprende quindi che nella condizione di diversità aumentata si acuisca quell’umanissima tendenza alla ricerca del consenso e della omogeneità di opinioni da parte degli altri.
Sui social questo effetto gratificante è alimentato dal sistema dei like che è come un indicatore immediato e semplice del plauso che si riceve rispetto a un contenuto pubblicato. Il like è un alimentatore di conferme: più se ne ricevono, più si ha la sensazione di essere riu- sciti a dire qualcosa di significativo.
Nel suo Per un pugno di like, Simone Cosimi ha fatto notare quanto alle piattaforme non piaccia il dissenso: esprimere consenso è semplice, basta cliccare sul cuoricino o sul pollice in su; mostrare disaccordo, al contrario, è molto più oneroso, richiede l’articolazione di pensiero e di parole. Alla lunga si crea un effetto semi-paradossale: quando si vuole contestare qualcosa si finisce per mettere like ai contenuti di chi quella cosa la contesta (come succede in quei continui richiami all’indignazione di cui abbiamo parlato) così persino un atto di dissenso va a confluire all’interno di una forma di consenso. Per dire che si è in disaccordo lo si fa attraverso la manifestazione di un accordo con qualcuno che si sta opponendo.
Il rifugiarsi tra simili
Si alimenta in questo modo una dinamica fatta di sacche di consenso nutrite da like di persone che la pensano allo stesso modo. Ogni posizione tende a circoscriversi, a raccogliere il consenso tra opinioni omogenee e, anche se si contrappone formalmente a qualcosa, di fatto non provoca mai un vero e proprio confronto con la prospettiva diversa. Si ottiene attenzione attraverso una contestazione e un’affermazione di differenza, ma poi si finisce a ritrovarsi tra simili a confermare attraverso quella differenza la propria somiglianza.
Questo rifugiarsi tra simili che si danno man forte, facendosi eco con le loro opinioni come in una cassa di risonanza (echo chamber), è una risposta alla fatica e alla prova a cui sottopone la diversità aumentata. Una tendenza che porta a un certo coefficiente di disinformazione e di polarizzazione giacché, quando si è in una di queste echo chamber, le informazioni che si ricevono e si condividono tendono ad essere sostanzialmente omogenee e a confermare ciò che già si pensa, spesso in modo infondato o incompleto.
È la radice di molta della violenza verbale a cui assistiamo nelle discussioni online: mancanza di informazioni attendibili e polarizzazione su posizioni inconciliabili sono il mix esplosivo che rende molte interazioni tendenti al litigio e all’espressione di odio.
La denuncia del nemico
È come essere in ogni momento sottoposti a una sorta di prova sociale che consiste nel saper stare in continuo contatto con il dissenso, cioè con il diverso modo di sentire e di vedere le cose degli alti. E a questa prova non ci si può sottrarre. Come abbiamo visto, qualcuno sceglie di cancellarsi dai social o di ritirarsi in una specie di rifugio eremitico lontano dagli scambi online. Lo fanno singoli utenti, ma talvolta prendono decisioni simili anche organizzazioni e aziende.
Tali soluzioni in realtà sono solo palliativi: la diversità aumentata non dipende da una piattaforma o dai social in particolare, ma è il frutto della condizione di iperconnessione in cui siamo immersi e non è reversibile. Anche se si mette off su tutti i dispositivi, il mondo attorno continua a vivere e incidere sulla vita e sulle scelte dell’individuo anche se è disconnesso.
Se un’azienda si cancella dalle piattaforme, gli utenti continueranno lo stesso a scambiarsi commenti e giudizi sui suoi prodotti e servizi, e quei contenuti, fatti di idee, opinioni, obiezioni, incideranno sulle relazioni delle persone e, che piaccia o no, andranno a costruire o a deteriorarne la reputazione.
Lo stesso accade per ciascuno: tutti abbiamo fatto l’esperienza di quanto, in gruppi di WhatsApp con colleghi, amici o genitori di scuola, le conversazioni scomposte e poco proficue incidano su decisioni importanti per la nostra vita e per la vita dei nostri figli. Disconnettersi non le migliora né le rende meno rilevanti per la nostra vita, semplicemente ce le toglie da davanti agli occhi.
Il rifugio nei gruppi di opinioni omogenee
Da sempre, trovarsi d’accordo e riscontrare affinità è umanamente appagante: ci si riconosce, si sperimenta senso di appartenenza, ci si fa forza. Invece stare nelle differenze è faticoso: richiede ascolto, elaborazione, articolazione del pensiero e delle emozioni. Non sorprende quindi che nella condizione di diversità aumentata si acuisca quell’umanissima tendenza alla ricerca del consenso e della omogeneità di opinioni da parte degli altri.
Sui social questo effetto gratificante è alimentato dal sistema dei like che è come un indicatore immediato e semplice del plauso che si riceve rispetto a un contenuto pubblicato. Il like è un alimentatore di conferme: più se ne ricevono, più si ha la sensazione di essere riu- sciti a dire qualcosa di significativo.
Nel suo Per un pugno di like, Simone Cosimi ha fatto notare quanto alle piattaforme non piaccia il dissenso: esprimere consenso è semplice, basta cliccare sul cuoricino o sul pollice in su; mostrare disaccordo, al contrario, è molto più oneroso, richiede l’articolazione di pensiero e di parole. Alla lunga si crea un effetto semi-paradossale: quando si vuole contestare qualcosa si finisce per mettere like ai contenuti di chi quella cosa la contesta (come succede in quei continui richiami all’indignazione di cui abbiamo parlato) così persino un atto di dissenso va a confluire all’interno di una forma di consenso. Per dire che si è in disaccordo lo si fa attraverso la manifestazione di un accordo con qualcuno che si sta opponendo.
Il rifugiarsi tra simili
Si alimenta in questo modo una dinamica fatta di sacche di consenso nutrite da like di persone che la pensano allo stesso modo. Ogni posizione tende a circoscriversi, a raccogliere il consenso tra opinioni omogenee e, anche se si contrappone formalmente a qualcosa, di fatto non provoca mai un vero e proprio confronto con la prospettiva diversa. Si ottiene attenzione attraverso una contestazione e un’affermazione di differenza, ma poi si finisce a ritrovarsi tra simili a confermare attraverso quella differenza la propria somiglianza.
Questo rifugiarsi tra simili che si danno man forte, facendosi eco con le loro opinioni come in una cassa di risonanza (echo chamber), è una risposta alla fatica e alla prova a cui sottopone la diversità aumentata. Una tendenza che porta a un certo coefficiente di disinformazione e di polarizzazione giacché, quando si è in una di queste echo chamber, le informazioni che si ricevono e si condividono tendono ad essere sostanzialmente omogenee e a confermare ciò che già si pensa, spesso in modo infondato o incompleto.
È la radice di molta della violenza verbale a cui assistiamo nelle discussioni online: mancanza di informazioni attendibili e polarizzazione su posizioni inconciliabili sono il mix esplosivo che rende molte interazioni tendenti al litigio e all’espressione di odio.
La denuncia del nemico
Se pensiamo agli scorsi mesi di lockdown dovuti alla pandemia abbiamo assistito a numerosi fenomeni di questo tipo come ad esempio la delazione sistematica dei runner attraverso i social, diventati a un certo punto gli untori e il nemico numero uno della lotta al Covid19.
Quello spirito di denuncia del “nemico”, basata su informazioni non del tutto complete, unita al sentirsi parte di un gruppo di moralizzatori “giusti” intenti a mettere al bando l’outsider trasgressore delle regole, ha prodotto un’ondata di atti di comunicazione aggressivi e talvolta irrazionali.
Ha descritto bene il fenomeno nei suoi effetti ridicoli un post in cui veniva riportata una foto della maratona di New York con una folla di runner intenti ad attraversare un ponte accompagnato dalla scritta: «Incoscienti che corrono sul ponte dello stretto di Messina nonostante i divieti». A coronare questa immagine due commenti, uno con scritto «Idioti!», l’altro con un «Ma sarà una foto vecchia spero».
Lasciarsi trasportare dalle reazioni in tendenza nelle proprie bolle omogenee senza un giusto distacco dalle proprie percezioni e dalle opinioni dei propri affini porta, come in questi casi, a fenomeni di vera e propria cecità.
È quello che ho chiamato l’Effetto Triceratopo: una definizione che viene da un caso di qualche anno fa in cui James Ascomb pubblicò su Facebook la foto di Steven Spielberg ritratto di fronte a un pupazzo di triceratopo morto sul set di Jurassic Park.
Il testo che accompagnava la foto suonava più o meno così: «Scellerata foto di un cacciatore sportivo mentre sorridente è in posa davanti al triceratopo che ha appena massacrato. Condividi anche tu affinché il mondo conosca, e svergogni, questo spregevole uomo».
A questo post seguirono migliaia di reazioni e commenti in cui, accanto a coloro che avevano colto l’ironia, apparvero molti commenti di animalisti e di persone contro la caccia pronte a inveire contro lo spregevole cacciatore. Addirittura in uno scambio, che non si capisce se serio o ironico, un utente dice all’altro: «Ma quello è Spielberg, il regista di Jurassic Park»; e gli viene replicato: «Non importa chi sia, non avrebbe dovuto sparare all’animale!».
Le pressioni cognitive
Questo caso che fa ridere e fa pensare a problemi di analfabetismo funzionale per l’incapacità di riconoscere un triceratopo in foto, in realtà ci dice qualcosa su un meccanismo che sta alla base di molti scontri che avvengono online. L’animalista caduto nell’errore, infatti, subisce almeno tre pressioni cognitive:
1. La pressione del gruppo omogeneo: probabilmente, quel contenuto arriva nelle sue timeline in quella formula relazionale e trascinante che abbiamo visto, accompagnato cioè dalla reazione negativa di qualche contatto affine per idee e visione della vita. Come accade spesso per le piattaforme social gli algoritmi tendono a mostrarci i contenuti quando sono commentati o hanno suscitato una reazione nelle persone con cui siamo più strettamente e assiduamente connessi.
2. La sfida al proprio mondo di valori: per una persona che crede nella difesa e nel rispetto degli animali, il contenuto del triceratopo non è solo un insieme di informazioni da codificare, ma un vero e proprio affronto a tutto ciò che per lui ha valore. È diversità inaccettabile: la foto ritrae una persona che ride davanti a un animale morto, la scena peggiore che un animalista possa immaginare. La quarta parola del post è “recreational hunter” – “cacciatore sportivo” – un termine che rappresenta il nome del nemico.
3. La pressione a difendere il proprio mondo: come abbiamo detto, il contenuto arriva già accompagnato dall’indignazione degli altri animalisti, cioè la “sua gente”, i suoi simili. Di fronte quindi alla minaccia dei propri valori, si sente l’irresistibile necessità di dichiarare la propria posizione contraria rispetto a quel contenuto “alieno” che sta offendendo il proprio mondo, e si ha quasi la sensazione che non esprimersi sia una sorta di vigliaccheria o di venire meno alle proprie convinzioni.
L’intervento scomposto di protesta contro lo spregevole cacciatore a sua volta apparirà sulle timeline di altri contatti con idee simili e il ciclo di pressioni si estenderà nelle connessioni di prossimità, tra affini, in modo virale come l’ondata di indignazione che solleverà.
Posizionarsi prima di capire
Nel caso del triceratopo o del ponte sullo stretto fa ridere ed è alquanto paradossale, ma a questo meccanismo siamo sottoposti tutti nei nostri spazi online magari con triceratopi e runner-untori meno lampanti e più sfumanti, ma altrettanto distruttivi.
Ogni volta, infatti, che sentiamo la necessità di intervenire e prendere una posizione, in realtà stiamo subendo quella triplice pres- sione: quel contenuto ci ha raggiungo già impostato dalla reazione dei nostri affini, lo ve diamo come una sfida di differenza rispetto al nostro mondo di convinzioni, siamo portati a posizionarci (contro o a favore) ancora prima di aver capito di cosa si tratti veramente.
La realtà è che nelle nostre continue interazioni nella diversità aumentata siamo impegnati in alcune delle sfide cruciali per la nostra vita, a volte senza esserne pienamente consapevoli. In ogni momento, infatti, ci cimentiamo nella possibilità di capire qualcosa in più o in meno della realtà che ci circonda; con le nostre reazioni ci presentiamo agli altri in modo più o meno adeguato e adatto (cioè ci va di mezzo la nostra reputazione); infine, con il nostro comportamento contribuiamo a migliorare o peggiorare la situazione per chi è in relazione con noi perché riceverà nei suoi spazi a sua volta gli effetti di quelle reazioni.
La differenza dà significato alla relazione
Il valore della comunicazione oggi non si può più misurare solo nella capacità di attirare l’attenzione e di confezionare messaggi chiari e comprensibili. In uno scenario di diversità aumentata la buona comunicazione non può che essere misurata sulla capacità di capire e farsi capire da chi non è d’accordo.
E questo non è un discorso puramente etico, come di aspirazione a un bene superiore rispetto alla realtà così come è, ma il contrario: per comunicare efficacemente nella iperconnessione occorre saper gestire ciò che verrà dal potenziale dissenso che ogni atto può generare agli occhi degli altri connessi.
Il criterio della gestione del dissenso e delle dissonanze è l’occasione per uscire dalle bolle di opinioni omogenee e vederci meglio nella complessità della realtà che stiamo vivendo. La comunicazione in un certo senso diventa una costante comunicazione di crisi, cioè capacità di far crescere le relazioni proprio quando le cose non tornano, quando non ci si capisce, quando non ci si trova a proprio agio nell’interazione con l’altro. È lì che ci può essere occasione di apertura rispetto alla tendenza istintiva a rimanere fermi nelle proprie modalità di comportamento e nelle proprie cerchie tribali abituali.
Il disaccordo come occasione
Dovremmo liberarci di quell’ideale un po’ astratto e ingenuo di dire le cose così bene da farci tutti amici. È un’illusione che, di fatto, non si è mai davvero realizzata. È stato a lungo il sogno del successo e oggi risuona nella ricerca di like e compiacimento da coloro che condividono le stesse idee. Quello che si rischia è rinchiudersi in tribù composte da circoli ristretti di consenso e non guardare più il resto del mondo là fuori. Perché se si accetta di essere esposti alla connessione, per quanto saremo capaci di ottenere un po’ di riscontro tra gli affini, accanto ad essi ci raggiungeranno sempre le interazioni di chi obietta, di chi non capisce, di chi si ribella, di chi non condivide la nostra visione della realtà.
E questa è un’ottima notizia. Perché se acquisiamo la capacità di saper stare in quei dissensi e in quei conflitti avremo la possibilità di conoscere persone e costruire relazioni che vanno molto al di là della tribù in cui siamo naturalmente inseriti.
Dal proprio mondo a un universo di mondi
Non solo: accettare la fatica dello stare nella differenza vuol dire essere disposti a mettere alla prova le proprie idee, e quindi migliorarsi. Chi cerca di articolare il proprio pensiero di fronte a un altro che non lo accetta o non lo capisce in modo automatico, aumenta la sua capacità di espressione, di argomentazione e perfino di affinamento del pensiero, oltre che di gestione delle emozioni. Finisce, alla lunga, a sviluppare pensiero critico e capacità di distacco dalle proprie convinzioni che, spesso, sono i principali ostacoli alla possibilità di fare nuove conoscenze.
La connessione ci sta chiedendo di sviluppare la capacità di stare nelle differenze come modo abituale di comunicare in rete. Forse prima era qualcosa che riguardava solo alcuni dediti a specifiche professioni o in condizioni di vita particolari. Oggi riguarda tutti, perché tutti siamo connessi.
Quelle tirbù omogenee in cui tutti siamo inseriti, se diventano l’unico orizzonte del no- stro vivere connessi possono essere ingabbianti e tenerci immobilizzati dal punto di vista relazionale e cognitivo. Se invece ben intese, come comunità che ci danno identità e comunanza, ma poi ci lasciano aperti verso l’esterno di relazioni basate sulla diversità aumentata, a guadagnarci sarà la nostra capacità di conoscere e di convivere: i molteplici mondi in connessione formano un universo molto più ricco e vitale del piccolo mondo sicuro in cui tendiamo a rifugiarci per pigrizia o paura di ciò che ci appare differente.
Nel caso del triceratopo o del ponte sullo stretto fa ridere ed è alquanto paradossale, ma a questo meccanismo siamo sottoposti tutti nei nostri spazi online magari con triceratopi e runner-untori meno lampanti e più sfumanti, ma altrettanto distruttivi.
Ogni volta, infatti, che sentiamo la necessità di intervenire e prendere una posizione, in realtà stiamo subendo quella triplice pres- sione: quel contenuto ci ha raggiungo già impostato dalla reazione dei nostri affini, lo ve diamo come una sfida di differenza rispetto al nostro mondo di convinzioni, siamo portati a posizionarci (contro o a favore) ancora prima di aver capito di cosa si tratti veramente.
La realtà è che nelle nostre continue interazioni nella diversità aumentata siamo impegnati in alcune delle sfide cruciali per la nostra vita, a volte senza esserne pienamente consapevoli. In ogni momento, infatti, ci cimentiamo nella possibilità di capire qualcosa in più o in meno della realtà che ci circonda; con le nostre reazioni ci presentiamo agli altri in modo più o meno adeguato e adatto (cioè ci va di mezzo la nostra reputazione); infine, con il nostro comportamento contribuiamo a migliorare o peggiorare la situazione per chi è in relazione con noi perché riceverà nei suoi spazi a sua volta gli effetti di quelle reazioni.
La differenza dà significato alla relazione
Il valore della comunicazione oggi non si può più misurare solo nella capacità di attirare l’attenzione e di confezionare messaggi chiari e comprensibili. In uno scenario di diversità aumentata la buona comunicazione non può che essere misurata sulla capacità di capire e farsi capire da chi non è d’accordo.
E questo non è un discorso puramente etico, come di aspirazione a un bene superiore rispetto alla realtà così come è, ma il contrario: per comunicare efficacemente nella iperconnessione occorre saper gestire ciò che verrà dal potenziale dissenso che ogni atto può generare agli occhi degli altri connessi.
Il criterio della gestione del dissenso e delle dissonanze è l’occasione per uscire dalle bolle di opinioni omogenee e vederci meglio nella complessità della realtà che stiamo vivendo. La comunicazione in un certo senso diventa una costante comunicazione di crisi, cioè capacità di far crescere le relazioni proprio quando le cose non tornano, quando non ci si capisce, quando non ci si trova a proprio agio nell’interazione con l’altro. È lì che ci può essere occasione di apertura rispetto alla tendenza istintiva a rimanere fermi nelle proprie modalità di comportamento e nelle proprie cerchie tribali abituali.
Il disaccordo come occasione
Dovremmo liberarci di quell’ideale un po’ astratto e ingenuo di dire le cose così bene da farci tutti amici. È un’illusione che, di fatto, non si è mai davvero realizzata. È stato a lungo il sogno del successo e oggi risuona nella ricerca di like e compiacimento da coloro che condividono le stesse idee. Quello che si rischia è rinchiudersi in tribù composte da circoli ristretti di consenso e non guardare più il resto del mondo là fuori. Perché se si accetta di essere esposti alla connessione, per quanto saremo capaci di ottenere un po’ di riscontro tra gli affini, accanto ad essi ci raggiungeranno sempre le interazioni di chi obietta, di chi non capisce, di chi si ribella, di chi non condivide la nostra visione della realtà.
E questa è un’ottima notizia. Perché se acquisiamo la capacità di saper stare in quei dissensi e in quei conflitti avremo la possibilità di conoscere persone e costruire relazioni che vanno molto al di là della tribù in cui siamo naturalmente inseriti.
Dal proprio mondo a un universo di mondi
Non solo: accettare la fatica dello stare nella differenza vuol dire essere disposti a mettere alla prova le proprie idee, e quindi migliorarsi. Chi cerca di articolare il proprio pensiero di fronte a un altro che non lo accetta o non lo capisce in modo automatico, aumenta la sua capacità di espressione, di argomentazione e perfino di affinamento del pensiero, oltre che di gestione delle emozioni. Finisce, alla lunga, a sviluppare pensiero critico e capacità di distacco dalle proprie convinzioni che, spesso, sono i principali ostacoli alla possibilità di fare nuove conoscenze.
La connessione ci sta chiedendo di sviluppare la capacità di stare nelle differenze come modo abituale di comunicare in rete. Forse prima era qualcosa che riguardava solo alcuni dediti a specifiche professioni o in condizioni di vita particolari. Oggi riguarda tutti, perché tutti siamo connessi.
Quelle tirbù omogenee in cui tutti siamo inseriti, se diventano l’unico orizzonte del no- stro vivere connessi possono essere ingabbianti e tenerci immobilizzati dal punto di vista relazionale e cognitivo. Se invece ben intese, come comunità che ci danno identità e comunanza, ma poi ci lasciano aperti verso l’esterno di relazioni basate sulla diversità aumentata, a guadagnarci sarà la nostra capacità di conoscere e di convivere: i molteplici mondi in connessione formano un universo molto più ricco e vitale del piccolo mondo sicuro in cui tendiamo a rifugiarci per pigrizia o paura di ciò che ci appare differente.
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