Il litigio sembra oggi la forma più comune di comunicazione. Litighiamo quando siamo in casa, litighiamo nei luoghi di lavoro; litigano le persone in tv e sui giornali, nei gruppi di WhatsApp, su Facebook e negli altri social network. La società sembra ormai una grande distesa di opinioni in continua contrapposizione.
Sembra una descrizione accurata di molte delle infinite querelle a cui assistiamo sui social network, in cui persone più o meno sconosciute finiscono a dirsi le cose più terribili e a offendersi a partire da una divergenza di opinioni. Eppure siamo di fronte a una frase scritta più di venti secoli fa da Platone. Il problema delle divergenze che portano allo scontro, infatti, non è nato con la nostra epoca né tantomeno dipende dai media o dalle tecnologie digitali.
Nel testo, tra l’altro, si parla di problemi che riguardavano all’epoca una piccolissima minoranza erudita e consapevole, l’unica che poteva permet- tersi di andare in piazza a discutere, mentre il resto della popolazione era escluso dal dibattito pubblico e politico. Questo vuol dire che il problema delle discussioni deragliate non è nemmeno una questione di ignoranza: riguarda anche le élite, e le riguarda da sempre.
Sentiamo spesso ripetere la nota frase di Umberto Eco: “i social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli”(2), e abbiamo la tentazione di usarla come spiegazione del litigare online. Le parole di Platone ci mettono in sostanza di fronte alla realtà : anche quando a parlare erano pochi, selezionati e competenti, si generavano le stesse dinamiche disfunzionali. Insomma, non è solo la tecnologia e non è nemmeno solo l’ignoranza. Casomai le possibilità tecnologiche, allargando sempre di più l’accesso alla discussione pubblica, hanno portato meglio alla luce la questione delle discussioni falli- mentari come problema eminentemente umano.
È come se fosse una predisposizione a una patologia che non dipende del tutto dalle condizioni sociali, economiche, comunicative: siamo portatori di questa vulnerabilità al di là del nostro spessore culturale e della nostra capacità di connessione. Il mal discutere è un morbo tipico umano, naturale, non ha bisogno di artifici tecnologici per presentarsi, anche se senz’altro le tecnologie della comunicazione ne hanno potenziato la manifestazione.
E qui direi che c’è la grande opportunità : non si stava meglio quando si vedeva meno. L’iperconnessione in cui siamo immersi ci sta dando la possibilità di guardare in faccia ciò che forse per troppo tempo abbiamo pensato di poter ignorare o di poter tenere sotto controllo: il mal discutere può diventare – e di fatto lo sta diventando – un vero e proprio mal di vivere sociale. L’odio, la frustrazione, le reazioni violente e scomposte c’erano anche prima, ma rimanevano in contesti sociali limitati e spesso poco visibili all’opinione pubblica. Dipendeva dalla selezione mediatica decidere se certi temi e certe modalità di comunicazione potessero essere portate all’attenzione pubblica.
Oggi è diverso: i fenomeni di odio e aggressione online si manifestano senza selezione all’entrata, in tutta la loro violenza. E non bisogna pensare solo ai casi più eclatanti e “rumorosi”, ma considerare anche l’odio sottile e quotidiano che emerge nei “tra le righe” delle nostre timeline dei social, nei nostri gruppi di WhatsApp, nelle nostre email in copia. Tutto materiale che rimane scritto, persistente, in molti casi espresso in pubblico e con una consistenza oggettiva più pesante delle semplici parole dette a voce(3).
È importante allora inquadrare il tema dei litigi e dell’odio online in que- sta prospettiva del mal discutere che affligge, e sempre affliggerà , l’umanità . È un male e come tale va trattato. Il semplice sdegno o le stigmatizzazioni dei discorsi d’odio, persino le campagne generiche per una sorta di disarmo verbale globale, non sono sufficienti quanto non sarebbe sufficiente trattare le patologie esclusivamente con campagne di sensibilizzazione. Le infezioni non si battono con i proclami, le ossa rotte non si riparano con gli appelli. Quando un male si presenta ci vuole una risposta all’altezza: ci vuole cura.
Cosa significa cura nel caso del mal discutere? La risposta ancora una volta ci può venire dalla considerazione di Platone che nella sua sintesi individua tutti i punti essenziali da cui partire.
“Quando ci si trovi in disaccordo su qualche punto”, scrive Platone, per descrivere il “momento zero” dell’emergere del dissenso. Perché può far scaturire il litigio? Perché quando c’è differenza di vedute non è solo una questione di idee, ma di scontro fra mondi. In qualità di esseri umani, quando discutiamo, nelle parole mettiamo tutto il nostro mondo di idee e convinzioni. Incontrare la divergenza significa incontrare una piccola o grande minaccia al proprio sistema di concezioni assodate(4). È sempre un momento traumatico. Preferiremmo infatti vivere nel nostro mondo confortevole di idee, magari circondati da coloro che le condividono e le rinforzano(5). Ci troviamo a disagio invece quando l’altro ci mette di fronte al suo mondo: è il momento in cui sentiamo il nostro non più così unico e solido.
“L’uno non riconosce che l’altro parli bene e con chiarezza, ci si infuria, e ciascuno pensa che l’altro parli per invidia nei propri confronti”, prosegue Platone, descrivendo il passo successivo: i due mondi che si scontrano e non riescono a trovare una lingua comune. È il fraintendimento. La scelta delle parole non è accurata, le argomentazioni sono insufficienti, il tono tocca corde emotive che fanno offendere, un certo termine ha creato un equivoco, oppure volontariamente si è andati sul personale con qualche accusa ad hominem. Il non capirsi nelle parole e nelle idee si riversa, negativamente, sulla relazione tra i due: nasce il sospetto verso l’altro, il legame inizia a deteriorarsi, il litigio è pronto a esprimersi.
“Facendo a gara per avere la meglio rinunciando alla ricerca sull’argomento proposto nella discussione”; in questa frase Platone mostra ormai la discussione deragliata: il contenuto non c’entra più, il merito del tema è stato messo da parte, ora ci sono solo due esseri umani che cercando di dimostrare l’uno all’altro o a se stessi (e a chi sta assistendo al litigio) la propria supremazia(6). I due mondi di opinioni e visioni diverse sono in aper- to conflitto. È guerra per l’egemonia, non conta più la questione di cui si parlava. Da qui le conseguenze ben descritte da Platone: gli insulti, il comportamento disonorevole, gli ascoltatori che si pentono di aver seguito un dibattito così inutile.
Il centro di tutta la vicenda è proprio l’abbandono della discussione. A volte siamo portati a pensare che siamo in un mondo di litigi perché si di- scute troppo. In realtà è l’esatto contrario: ci sono così tanti litigi perché si discute troppo poco. È la mancanza di discussione a far litigare. È l’abbandono del merito delle questioni, il disimpegno a rimanere sul tema, a non scadere sul personale (“dici così perché sei...”) oppure a divagare nei principi (“quello che dici è ingiusto quindi non si discute...”), per non parlare poi degli insulti più o meno velati, ad esempio quando si mettono in dubbio le intenzioni e le competenze dell’altro. Tutti modi che alla fine manifestano lo stesso male: facciamo fatica a confrontarci fino in fondo con la differenza dell’altro e quindi deviamo dal tema, smettiamo di fare la fatica di argomen- tare e lo attacchiamo su altri piani per avere la meglio.
L’incontro con la diversità è impegnativo. Un tempo lo potevamo gestire meglio e decidere quando entrare in contatto con mondi diversi dal nostro: un viaggio, un’attività di volontariato, una situazione professionale in cui confrontare competenze. Eravamo preparati. Oggi invece quel “mondo dell’altro” ci accompagna quotidianamente: nella società plurale intercon- nessa è ciò che si manifesta più comunemente. La piazza in cui le élite erudite faticavano a discutere in modo sano è entrata nelle tasche di tutti: nei nostri smartphone che connettono mondi divergenti.
La cura quindi è necessaria, per tutti. Cura nell’uso delle parole più adat- te, cioè che possano essere capite anche da chi viene da un altro mondo. Cura delle argomentazioni, che non possono essere autoreferenziali, ma devono partire dall’altro e dal suo mondo di riferimenti. Cura delle emozioni, dei sentimenti, della sensibilità che differisce a seconda della prospettiva che come tale va rispettata. Insomma la cura di cui c’è bisogno è l’impegno in ogni discussione a rimanere nel tema, ricordando allo stesso tempo la persona e le persone con cui si sta parlando: è il legame a permettere che ci sia vero confronto.
Siamo abituati a pensare che per esserci comunicazione sia necessario partire da un terreno comune. È il sogno della comunicazione felice: parlare con tutti essendo capiti perfettamente per ciò che si intende. È un’illusione che in fondo presuppone che ci sia sostanziale accordo sulle questioni fondamentali e si possa quindi dissentire su questioni secondarie. Nella società plurale, però, ciò che sempre più si presenterà nelle nostre discussioni è la differenza sulle questioni più importanti. Allora i terreni comuni andranno costruiti, trovati, organizzati, faticosamente nel confrontarsi stesso. Saranno l’esito non il punto di partenza. Non di un’idea ingenua di comunicazione felice – che nelle epoche storiche non si è mai realizzata – ma di una più rea- listica disputa felice: il sincero confrontare il dissenso cercando di mantenere la relazione comunicativa con l’altro.
Le idee migliori e le migliori scelte non vengono dal trovarsi in accordo, ma dal contrario(7): è quando dobbiamo argomentare di fronte a chi mette in dubbio le nostre prospettive e le nostre decisioni che facciamo lo sforzo di migliorare noi stessi e la tenuta del nostro pensiero. È faticoso, ma è il bene che produce la comunicazione, quando autentica. Potremmo infatti anche non avere valori in comune, ma tutti siamo in grado di riconoscere il valore comune della comunicazione(8) che permette a ciascuno di poter proporre la sua differenza e discuterla con gli altri.
La prospettiva da cui ripartire insomma è sostanzialmente educativa: nello scenario della società interconnessa, dove l’accesso alle informazioni, alla conoscenza e al dibattito pubblico è libero, c’è bisogno di cittadini capaci di discutere: è la condizione per vivere l’interconnessione come occasione di partecipazione, altrimenti si trasformerà in deriva di esclusione(9).
ll ben discutere in quest’ottica diventa sostanzialmente un bene-dire sociale. La funzione presente in tutte le tradizioni religiose della benedizione, cioè del buon auspicio attraverso le parole che fa agire il sacro migliorando il cammino umano, può tradursi anche nella realtà sociale: lo sforzo della buona comunicazione, il bene-dire, non rimarrà solo nelle parole o negli scambi di opinioni, ma riverserà benefici concreti tra gli esseri umani, ricostruendo il senso dei legami non malgrado, ma a partire dalla differenza, che è ormai la caratteristica del mondo costituito da una moltitudine di mondi in connessione.
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1 Platone, Tutte le opere, Roma, Newton Compton, 2013, versione ebook, Gorgia: 457d.
2 Umberto Eco, “Con i social parola a legioni di imbecilli”, La Stampa, 10.6.2015
3 Cfr. Vera Gheno, Social-linguistica. Italiano e italiani dei social network, Firenze, Cesa- ti, 2017, p. 116 e seg.
4 Cfr. Bruno Mastroianni, La disputa felice. Dissentire senza litigare sui social network, sui media e in pubblico, Firenze, Cesati, 2017, pp. 11 e seg.
5 Sul tema del pregiudizio di conferma e l’effetto cassa di risonanza (echo chamber) tra opinioni simili che si rafforzano cfr. Walter Quattrociocchi, Antonella Vicini, Misinforma- tion. Guida alla società dell’informazione e della credulità , Milano, Franco Angeli, 2016.
6 Cfr. Adelino Cattani, Botta e risposta. L’arte della replica, Bologna, Il Mulino, 2005, p. 216.
7 Cfr. Luca De Biase, Homo pluralis. Essere umani nell’era tecnologica, Torino, Codice, 2015, versione ebook, capitolo 6: Umani.
8 Cfr. Manuel Castells, Comunicazione e potere, Milano, Egea, 2017, versione ebook, 1. Il potere nella società in rete, La società in rete.
9 Per la tematica della complessità e la prospettiva dell’educazione all’interconnessione cfr. Piero Dominici, Dentro la società interconnessa. Prospettive etiche per un nuovo ecosi- stema della comunicazione, Milano, Franco Angeli, 2014.
“Quando ci si trova in disaccordo su qualche punto, e l’uno non riconosce che l’altro parli bene e con chiarezza, ci si infuria, e ciascuno pensa che l’altro parli per invidia nei propri confronti, facendo a gara per avere la meglio e rinunciando alla ricerca sull’argomento proposto nella discussione. E certuni, addirittura, finiscono col separarsi nel modo più disonorevole, dopo essersi insultati e aver detto e udito, su di sé, cose tali che anche i presenti si pentono di aver creduto che sarebbe valsa la pena venire a sentire gente del genere”(1).
Sembra una descrizione accurata di molte delle infinite querelle a cui assistiamo sui social network, in cui persone più o meno sconosciute finiscono a dirsi le cose più terribili e a offendersi a partire da una divergenza di opinioni. Eppure siamo di fronte a una frase scritta più di venti secoli fa da Platone. Il problema delle divergenze che portano allo scontro, infatti, non è nato con la nostra epoca né tantomeno dipende dai media o dalle tecnologie digitali.
Nel testo, tra l’altro, si parla di problemi che riguardavano all’epoca una piccolissima minoranza erudita e consapevole, l’unica che poteva permet- tersi di andare in piazza a discutere, mentre il resto della popolazione era escluso dal dibattito pubblico e politico. Questo vuol dire che il problema delle discussioni deragliate non è nemmeno una questione di ignoranza: riguarda anche le élite, e le riguarda da sempre.
Sentiamo spesso ripetere la nota frase di Umberto Eco: “i social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli”(2), e abbiamo la tentazione di usarla come spiegazione del litigare online. Le parole di Platone ci mettono in sostanza di fronte alla realtà : anche quando a parlare erano pochi, selezionati e competenti, si generavano le stesse dinamiche disfunzionali. Insomma, non è solo la tecnologia e non è nemmeno solo l’ignoranza. Casomai le possibilità tecnologiche, allargando sempre di più l’accesso alla discussione pubblica, hanno portato meglio alla luce la questione delle discussioni falli- mentari come problema eminentemente umano.
È come se fosse una predisposizione a una patologia che non dipende del tutto dalle condizioni sociali, economiche, comunicative: siamo portatori di questa vulnerabilità al di là del nostro spessore culturale e della nostra capacità di connessione. Il mal discutere è un morbo tipico umano, naturale, non ha bisogno di artifici tecnologici per presentarsi, anche se senz’altro le tecnologie della comunicazione ne hanno potenziato la manifestazione.
E qui direi che c’è la grande opportunità : non si stava meglio quando si vedeva meno. L’iperconnessione in cui siamo immersi ci sta dando la possibilità di guardare in faccia ciò che forse per troppo tempo abbiamo pensato di poter ignorare o di poter tenere sotto controllo: il mal discutere può diventare – e di fatto lo sta diventando – un vero e proprio mal di vivere sociale. L’odio, la frustrazione, le reazioni violente e scomposte c’erano anche prima, ma rimanevano in contesti sociali limitati e spesso poco visibili all’opinione pubblica. Dipendeva dalla selezione mediatica decidere se certi temi e certe modalità di comunicazione potessero essere portate all’attenzione pubblica.
Oggi è diverso: i fenomeni di odio e aggressione online si manifestano senza selezione all’entrata, in tutta la loro violenza. E non bisogna pensare solo ai casi più eclatanti e “rumorosi”, ma considerare anche l’odio sottile e quotidiano che emerge nei “tra le righe” delle nostre timeline dei social, nei nostri gruppi di WhatsApp, nelle nostre email in copia. Tutto materiale che rimane scritto, persistente, in molti casi espresso in pubblico e con una consistenza oggettiva più pesante delle semplici parole dette a voce(3).
È importante allora inquadrare il tema dei litigi e dell’odio online in que- sta prospettiva del mal discutere che affligge, e sempre affliggerà , l’umanità . È un male e come tale va trattato. Il semplice sdegno o le stigmatizzazioni dei discorsi d’odio, persino le campagne generiche per una sorta di disarmo verbale globale, non sono sufficienti quanto non sarebbe sufficiente trattare le patologie esclusivamente con campagne di sensibilizzazione. Le infezioni non si battono con i proclami, le ossa rotte non si riparano con gli appelli. Quando un male si presenta ci vuole una risposta all’altezza: ci vuole cura.
Cosa significa cura nel caso del mal discutere? La risposta ancora una volta ci può venire dalla considerazione di Platone che nella sua sintesi individua tutti i punti essenziali da cui partire.
“Quando ci si trovi in disaccordo su qualche punto”, scrive Platone, per descrivere il “momento zero” dell’emergere del dissenso. Perché può far scaturire il litigio? Perché quando c’è differenza di vedute non è solo una questione di idee, ma di scontro fra mondi. In qualità di esseri umani, quando discutiamo, nelle parole mettiamo tutto il nostro mondo di idee e convinzioni. Incontrare la divergenza significa incontrare una piccola o grande minaccia al proprio sistema di concezioni assodate(4). È sempre un momento traumatico. Preferiremmo infatti vivere nel nostro mondo confortevole di idee, magari circondati da coloro che le condividono e le rinforzano(5). Ci troviamo a disagio invece quando l’altro ci mette di fronte al suo mondo: è il momento in cui sentiamo il nostro non più così unico e solido.
“L’uno non riconosce che l’altro parli bene e con chiarezza, ci si infuria, e ciascuno pensa che l’altro parli per invidia nei propri confronti”, prosegue Platone, descrivendo il passo successivo: i due mondi che si scontrano e non riescono a trovare una lingua comune. È il fraintendimento. La scelta delle parole non è accurata, le argomentazioni sono insufficienti, il tono tocca corde emotive che fanno offendere, un certo termine ha creato un equivoco, oppure volontariamente si è andati sul personale con qualche accusa ad hominem. Il non capirsi nelle parole e nelle idee si riversa, negativamente, sulla relazione tra i due: nasce il sospetto verso l’altro, il legame inizia a deteriorarsi, il litigio è pronto a esprimersi.
“Facendo a gara per avere la meglio rinunciando alla ricerca sull’argomento proposto nella discussione”; in questa frase Platone mostra ormai la discussione deragliata: il contenuto non c’entra più, il merito del tema è stato messo da parte, ora ci sono solo due esseri umani che cercando di dimostrare l’uno all’altro o a se stessi (e a chi sta assistendo al litigio) la propria supremazia(6). I due mondi di opinioni e visioni diverse sono in aper- to conflitto. È guerra per l’egemonia, non conta più la questione di cui si parlava. Da qui le conseguenze ben descritte da Platone: gli insulti, il comportamento disonorevole, gli ascoltatori che si pentono di aver seguito un dibattito così inutile.
Il centro di tutta la vicenda è proprio l’abbandono della discussione. A volte siamo portati a pensare che siamo in un mondo di litigi perché si di- scute troppo. In realtà è l’esatto contrario: ci sono così tanti litigi perché si discute troppo poco. È la mancanza di discussione a far litigare. È l’abbandono del merito delle questioni, il disimpegno a rimanere sul tema, a non scadere sul personale (“dici così perché sei...”) oppure a divagare nei principi (“quello che dici è ingiusto quindi non si discute...”), per non parlare poi degli insulti più o meno velati, ad esempio quando si mettono in dubbio le intenzioni e le competenze dell’altro. Tutti modi che alla fine manifestano lo stesso male: facciamo fatica a confrontarci fino in fondo con la differenza dell’altro e quindi deviamo dal tema, smettiamo di fare la fatica di argomen- tare e lo attacchiamo su altri piani per avere la meglio.
L’incontro con la diversità è impegnativo. Un tempo lo potevamo gestire meglio e decidere quando entrare in contatto con mondi diversi dal nostro: un viaggio, un’attività di volontariato, una situazione professionale in cui confrontare competenze. Eravamo preparati. Oggi invece quel “mondo dell’altro” ci accompagna quotidianamente: nella società plurale intercon- nessa è ciò che si manifesta più comunemente. La piazza in cui le élite erudite faticavano a discutere in modo sano è entrata nelle tasche di tutti: nei nostri smartphone che connettono mondi divergenti.
La cura quindi è necessaria, per tutti. Cura nell’uso delle parole più adat- te, cioè che possano essere capite anche da chi viene da un altro mondo. Cura delle argomentazioni, che non possono essere autoreferenziali, ma devono partire dall’altro e dal suo mondo di riferimenti. Cura delle emozioni, dei sentimenti, della sensibilità che differisce a seconda della prospettiva che come tale va rispettata. Insomma la cura di cui c’è bisogno è l’impegno in ogni discussione a rimanere nel tema, ricordando allo stesso tempo la persona e le persone con cui si sta parlando: è il legame a permettere che ci sia vero confronto.
Siamo abituati a pensare che per esserci comunicazione sia necessario partire da un terreno comune. È il sogno della comunicazione felice: parlare con tutti essendo capiti perfettamente per ciò che si intende. È un’illusione che in fondo presuppone che ci sia sostanziale accordo sulle questioni fondamentali e si possa quindi dissentire su questioni secondarie. Nella società plurale, però, ciò che sempre più si presenterà nelle nostre discussioni è la differenza sulle questioni più importanti. Allora i terreni comuni andranno costruiti, trovati, organizzati, faticosamente nel confrontarsi stesso. Saranno l’esito non il punto di partenza. Non di un’idea ingenua di comunicazione felice – che nelle epoche storiche non si è mai realizzata – ma di una più rea- listica disputa felice: il sincero confrontare il dissenso cercando di mantenere la relazione comunicativa con l’altro.
Le idee migliori e le migliori scelte non vengono dal trovarsi in accordo, ma dal contrario(7): è quando dobbiamo argomentare di fronte a chi mette in dubbio le nostre prospettive e le nostre decisioni che facciamo lo sforzo di migliorare noi stessi e la tenuta del nostro pensiero. È faticoso, ma è il bene che produce la comunicazione, quando autentica. Potremmo infatti anche non avere valori in comune, ma tutti siamo in grado di riconoscere il valore comune della comunicazione(8) che permette a ciascuno di poter proporre la sua differenza e discuterla con gli altri.
La prospettiva da cui ripartire insomma è sostanzialmente educativa: nello scenario della società interconnessa, dove l’accesso alle informazioni, alla conoscenza e al dibattito pubblico è libero, c’è bisogno di cittadini capaci di discutere: è la condizione per vivere l’interconnessione come occasione di partecipazione, altrimenti si trasformerà in deriva di esclusione(9).
ll ben discutere in quest’ottica diventa sostanzialmente un bene-dire sociale. La funzione presente in tutte le tradizioni religiose della benedizione, cioè del buon auspicio attraverso le parole che fa agire il sacro migliorando il cammino umano, può tradursi anche nella realtà sociale: lo sforzo della buona comunicazione, il bene-dire, non rimarrà solo nelle parole o negli scambi di opinioni, ma riverserà benefici concreti tra gli esseri umani, ricostruendo il senso dei legami non malgrado, ma a partire dalla differenza, che è ormai la caratteristica del mondo costituito da una moltitudine di mondi in connessione.
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1 Platone, Tutte le opere, Roma, Newton Compton, 2013, versione ebook, Gorgia: 457d.
2 Umberto Eco, “Con i social parola a legioni di imbecilli”, La Stampa, 10.6.2015
3 Cfr. Vera Gheno, Social-linguistica. Italiano e italiani dei social network, Firenze, Cesa- ti, 2017, p. 116 e seg.
4 Cfr. Bruno Mastroianni, La disputa felice. Dissentire senza litigare sui social network, sui media e in pubblico, Firenze, Cesati, 2017, pp. 11 e seg.
5 Sul tema del pregiudizio di conferma e l’effetto cassa di risonanza (echo chamber) tra opinioni simili che si rafforzano cfr. Walter Quattrociocchi, Antonella Vicini, Misinforma- tion. Guida alla società dell’informazione e della credulità , Milano, Franco Angeli, 2016.
6 Cfr. Adelino Cattani, Botta e risposta. L’arte della replica, Bologna, Il Mulino, 2005, p. 216.
7 Cfr. Luca De Biase, Homo pluralis. Essere umani nell’era tecnologica, Torino, Codice, 2015, versione ebook, capitolo 6: Umani.
8 Cfr. Manuel Castells, Comunicazione e potere, Milano, Egea, 2017, versione ebook, 1. Il potere nella società in rete, La società in rete.
9 Per la tematica della complessità e la prospettiva dell’educazione all’interconnessione cfr. Piero Dominici, Dentro la società interconnessa. Prospettive etiche per un nuovo ecosi- stema della comunicazione, Milano, Franco Angeli, 2014.
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