(rielaborato da: Bruno Mastroianni,
La disputa felice, Cesati 2017, pp. 25-35)
Nulla potrà mai sostituire la particella elementare della comunicazione: il contenuto. Ma il contenuto non si presenta mai da solo. È sempre accompagnato da qualcuno che lo trasmette e che, nel farlo, ci mette le sue aspettative, il suo stile, i suoi stati d’animo, le sue preoccupazioni, le sue emozioni; in una parola: la sua umanità.
Questo insieme di elementi esteriori e di atteggiamento, che emerge durante una conversazione, rafforza o rende meno chiaro il messaggio tanto quanto la sua testualità, favorendo la possibilità di capirsi oppure ostacolandola.
In sostanza, quando parliamo diciamo delle cose, e le diciamo in un certo modo. Quel modo è spesso ciò che compromette o fa andare a buon fine la comunicazione. Quando poi si è in un momento di confronto pubblico, di fronte a più interlocutori, magari non automaticamente interessati al tema (pensiamo a una conferenza pubblica o a una lezione in una classe di liceo), gli elementi esteriori diventano ancora più influenti perché gli interlocutori non sono puri intelletti, ma esseri umani coinvolti (o non coinvolti) anche dal punto di vista emotivo. Tenere conto e saper controllare questi aspetti di atteggiamento è il primo passo per imparare a farsi capire al meglio.
Quando si è esposti in pubblico aumenta la nostra reattività, diventiamo più suscettibili, ci muoviamo diversamente e notiamo maggiormente i movimenti dell’altro, ci sentiamo allo scoperto e giudicati: siamo più sensibili a tutto ciò che va oltre il mero discorsoche stiamo facendo.
Quanto conta il come
Non si può non comunicare. Sia che parliamo o che stiamo zitti, che ci muoviamo o stiamo fermi, tutto è atto di comunicazione. Gli elementi verbali sono sempre accompagnati da elementi non verbali: i gesti, le espressioni del volto, i movimenti degli occhi, ma anche il tono, la calma, il nervosismo; elementi che accompagnano e fanno pienamente parte del messaggio che trasmettiamo.
La dimensione non verbale è inscindibile da ciò che diciamo attraverso le parole. Questa dimensione è quella che solitamente, al di là della letteralità, influenza maggiormente la relazione con l’altro. È su questo livello ad esempio che si può essere ironici o seri, ambigui o netti, si possono trasmettere emozioni o scoraggiarle. Un livello che completa e dà colore a ciò che si dice.
In un discorso in pubblico, gli elementi non-verbali trasmettono informazioni delle quali non si è del tutto consapevoli. Da un certo punto di vista è un piano di comunicazione più affidabile e autentico perché rivela qualcosa degli interlocutori anche al di là delle loro intenzioni: quando qualcuno arrossisce perché a disagio, oppure quando ha esitazioni che rivelano insincerità; una dimensione profondamente rivelatoria degli intenti di una persona mentre parla e comunica.
Linguaggio verbale e non verbale si presentano sempre intrecciati e interdipendenti: entrambi concorrono efficacemente all’attivitàdiscorsiva. Talvolta il “come si dice” può diventare preminente e sovrastare il “cosa” si dice. Pensiamo a che differenza c’è tra un marito che dice alla moglie “ti voglio bene” mentre sta guardando il cellulare e usa un tono distratto, senza neanche alzare lo sguardo; o se lo fa sussurrandolo con un tono dolce, tenendole le mani e guardandola negli occhi. Il “cosa” è identico (“ti voglio bene”), il tipo di messaggio che si trasmette è praticamente opposto in base al “come” lo si è detto, così come gli effetti che questa comunicazione avrà sulla relazione tra i due.
Il linguaggio del corpo è profondamente efficace. Occorre imparare a servirsi dell’effetto che hanno sull’interlocutore i nostri movimenti, gli sguardi, i sorrisi. Non si tratta di manipolare o essere falsi, ma di scoprire quante possibilità abbiamo di supportare l’argomentare attraverso i nostri segnali esteriori.
Sembra ovvio, ma spesso sottovalutiamo questo livello così determinante della comunicazione. Anche dal punto di vista educativo si dedicano poche risorse ad affinare il nostro “modo” di dire le cose, prediligendo – per esempio a scuola o all’università – il “cosa”: i contenuti, le nozioni, la scelta dei vocaboli, la capacità di dare coerenza a un discorso. Nella vita reale invece, e soprattutto nel momento in cui si discute, la dimensione meta-verbale può contare molto di più della coerenza o della organizzazione delle argomentazioni.
Ogni interazione verbale sottende un codice sociale preciso che richiede certi atteggiamenti. Ce ne accorgiamo quando questo viene infranto, ad esempio quando qualcuno interrompe costantemente il nostro discorso, o quando non smette più di parlare non lasciando spazio alla replica: in quei momenti ci rendiamo conto che conversare non è solo scambiarsi informazioni e contenuti, ma anzitutto rispettare delle regole (non scritte) che rendono un’interazione socialmente accettabile o meno.
Tutto questo vale anche in situazioni mediate dalla tecnologia, ad esempio sui social network. È fuorviante pensare che, quando ci si confronta in una serie di commenti scritti su schermo, conti solo il merito di ciò che si dice. L’atteggiamento trapela tra le righe, nelle parole che usiamo, nel modo con cui le leghiamo tra loro; persino la punteggiatura può trasmettere tensione o serenità nel rispondere.
La scrittura sui social possiede un contenuto extra, un surplus di socialità che va oltre il mero oggetto dei discorsi. Non è solo la faccia o la presenza a produrre comunicazione extraverbale, ma anche la successione delle parole, la loro scelta, lo stile e gli intenti con cui sono scritte. De visu o in connessione digitale cambiano le modalità, ma l’atteggiamento traspare e fa parte della discussione tanto quanto il merito del discorso.
Si tratta di imparare non tanto a cancellare le reazioni spontanee quanto a indirizzarle per renderle un supporto per ciò che stiamo dicendo. Vediamo come.
La postura in gioco
In qualsiasi momento intraprendiamo un’interazione con l’altro il nostro corpo cambia. La nostra postura, il tono della voce, la posizione delle mani, lo sguardo, si adeguano alla situazione in cui ci troviamo. Di fronte a un giudice in udienza o a un professore durante un esame assumiamo posizioni e facciamo gesti molto diversi da quando siamo di fronte a nostra madre o a un amico di vecchia data.
Questo modo spontaneo e intuitivo di gestire la nostra posizione, i nostri sguardi, il contatto visivo e la mimica facciale in fase di dibattito si complica, perché il contrasto tra idee aumenta la percezione delle reazioni dell’interlocutore: ci si può sentire non approvati, criticati, non capiti. Il nostro corpo sente come di essere minacciato e reagisce.
L’essere di fronte a una telecamera (ad esempio in un dibattito in Tv), stare su un palco (perché si parla in pubblico) e altre situazioni di posizione al centro dell’attenzione o di compresenza di interlocutori (può capitare anche quando siamo in un bar), aumentano l’effetto: ansia, tensione, irrigidimento possono compromettere la capacità di spiegarsi, di farsi capire, di argomentare efficacemente.
Provare questa sensazione è normale. Saperla sfruttare per trarne vantaggio è un’arte che si apprende con un po’ di esercizio. I cambiamenti del nostro corpo, infatti, sono strategie efficacissime per farci concentrare, per aiutarci a focalizzare le energie mentali sull’interazione con altri in cui ci troviamo coinvolti. Riconoscere queste reazioni è già iniziare a coglierne il potenziale.
Muoversi continuamente oscillando o fare movimenti ripetitivi con una mano o un piede (riflesso che talvolta può venirci per sfogare la tensione) trasmette agitazione e distrae. Fare lo sforzo di stare fermi e fisicamente coesi ci aiuterà a essere anche più concentrati su ciò che stiamo dicendo. Un consiglio che di solito viene dato a chi va in Tv, per creare un clima positivo e suscitare sensazione di sicurezza in chi parla, è quello di sporgersi leggermente verso la telecamera. Tale movimento funziona anche se si parla con un altro (persino se da un palco si parla al pubblico): accennare il movimento di avvicinarsi fisicamente aiuta ad avvicinarsi anche mentalmente con le idee e con il linguaggio.
Il gesto contrario è il riflesso a inclinare il busto all’indietro, quasi ad allontanare il volto e la testa dall’interlocutore (o dalla telecamera), magari incrociando le braccia in gesto di chiusura: aumenta l’atteggiamento mentale di distacco. Intervenire su questo aspetto prossemico aiuta a mettersi nell’atteggiamento psicologico adeguato. Provare per credere.
I gesti delle mani aiutano a coinvolgere e a sottolineare le proprie affermazioni. Quando l’uso è esagerato, però, può essere fonte di distrazione. In video poi i gesti sono accentuati e più evidenti. Chi tende a esagerare con i gesti può cercare di limitarli a certi momenti del discorso: nelle parti cruciali, per sottolineare solo alcune conclusioni importanti. Chi invece non ne fa uso può iniziare a fare tentativi di accompagnamento delle proprie parole. Di sicuro i due eccessi – la sindrome del prestidigitatore che gesticola troppo o l’effetto scolaro interrogato con le mani dietro la schiena – sono da evitare.
A me gli occhi
Il contatto oculare è tanto importante quando la posizione del corpo. Guardare negli occhi è un modo molto potente per accompagnare la comunicazione e va usato con cura. In certi casi infatti lo sguardo può diventare inquietante, invasivo, prevaricatore. Il modo di posare gli occhi sull’altro o sugli altri deve essere proporzionato al tipo di relazione e deve tenere conto della forte reciprocità che comporta: chi ha molta confidenza può scambiarsi molti messaggi con lo sguardo, chi ne ha poca può provare disagio o addirittura cadere in fraintendimenti.
Se si è in fase di discorso tra più persone conviene guardare il più possibile i diversi interlocutori senza fissarne uno solo. Anche quando si è a tu per tu è bene guardare negli occhi, ma si possono fare anche pause per evitare l’effetto aggressivo. Ciò che non va fatto è soffermarsi su particolari del corpo o dell’abbigliamento: anche inconsciamente viene registrato dall’interlocutore come un giudizio sul suo aspetto.
In caso di riprese video si consiglia di guardare gli interlocutori (se si è in un dibattito) oppure il proprio intervistatore. Guardare in camera in modo fisso ha sempre un impatto molto intenso, va usato con cautela a meno che non si tratti di video come le dirette su Facebook o i vlog di YouTube che prevedono il format della telecamera frontale.
Gli errori da evitare assolutamente in ogni occasione sono: lo sguardo basso, il fissarsi in modo ipnotico su un punto o su un interlocutore (un errore tipico di quando si parla in pubblico), agitare gli occhi in vari punti in modo frenetico. Tutte modalità d’uso del contatto oculare che distraggono o compromettono il clima dell’interazione.
Datti un tono
A volte, quando discutiamo, tendiamo a parlare a macchinetta, oppure ad alzare la voce in modo sproporzionato. Spesso ci accade per l’ansia di esprimerci e di difendere le nostre convinzioni. C’è anche chi, per l’emozione magari davanti a un pubblico, entra in modalità monotona emettendo un segnale vocale piatto e privo di volume.
Il ritmo e il tono, invece, sono la chiave per farsi capire. Scandire bene le parole, fare pause tra un concetto e l’altro, aiuta a farsi ascoltare. Anche in caso di interruzioni da parte dell’altro, rimanere nel proprio ritmo, invece di rintuzzare le intrusioni scomposte, dà autorevolezza e contribuisce a stemperare il clima di ostilità.
Le frasi lunghe e piene di subordinate non aiutano: ogni subordinata incoraggia l’interruzione o la distrazione da parte dell’altro, sia faccia a faccia ma a maggior ragione quando si è intervistati o in un dibattito televisivo. Le strutture sintattiche semplici pagano: seguire dove possibile l’ordine naturale degli elementi della frase in italiano – soggetto, verbo e complemento oggetto – assicura espressività e chiarezza.
Esiste poi una gamma di suoni tra una parola e l’altra: gli “ehm”, i “diciamo”, i “cioè” ripetuti ossessivamente, l’“eh” prolungato che riempie il silenzio tra le parole. Fanno parte delle difese che sono assunte dal nostro cervello in situazione di tensione. Per correggere questo effetto ci si può allenare a cercare i silenzi e a sfruttare le pause per sottolineare l’importanza di ciò che è stato appena detto, o per creare aspettativa su ciò che si sta per dire.
Attendere qualche frazione di secondo prima di esporre un concetto, per esempio fermandosi per un attimo a pensare, può essere un modo per mostrare rispetto e interesse per la domanda o per ciò che ha detto l’altro. Non c’è da esagerare, ma in casi di confronto e di discussione essere un po’ più teatrali è meglio che mostrarsi senza colore e monotoni.
Il sorriso universale
Quando si discute, che sia online, dal vivo o in video, il contesto conta molto. E con questo, il tono e lo stile. È qualcosa che siamo abituati a fare costantemente nel nostro interagire con altri nella vita di tutti i giorni, in cui sappiamo in linea di massima passare da un registro all’altro a seconda del contesto e della situazione. Al momento di confrontarci in pubblico, di fronte a più interlocutori,può accadere però, come fossimo troppo presi dalla discussione, di perdere in parte o del tutto questa capacità di individuare e interpretare la “chiave” appropriata, e ciò ci può porre in una condizione di conflitto.
Il problema è reale perché in un mondo plurale le differenze culturali, di sensibilità e di visione del mondo sono ormai all’ordine del giorno, e possono incidere in modo rilevante sugli aspetti esteriori della comunicazione: a differenti mentalità corrispondono differenti assegnazioni di significati a gesti, parole e atteggiamenti.
Una strada efficace da percorrere allora è quella della cordialità e del sorriso. Sembra banale dirlo, ma al di là di ogni differenza il sorriso attrae, la severità respinge. L’atteggiamento serioso spesso può essere effetto del concentrarsi mentre si dice qualcosa. Invece è molto più efficace chi sa dire le stesse cose generando serenità e buon umore, anche quando affronta tematiche impegnative. Sintonizzarsi con i sentimenti, e non solo con gli intelletti, è la via per farsi ascoltare.
La “regola del sorriso” vale sempre: cercare di far sorridere l’altro mentre si sostengono le proprie tesi aiuta psicologicamente a non perdere il controllo, a rimanere nella cortesia e nel rispetto. Il sorriso trapelerà nei gesti, nelle parole, nei toni che usiamo.
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