Un’enorme e variegata distesa di litigi, scontri, discussioni, insulti. Oggi ci verrebbe da descrivere così il mondo dei social, secondo un punto di vista che, tra l’altro, va per la maggiore nel dibattito sui media classici. “Il feroce popolo del web”, “il cyberbullismo”, “l’odio online”, “gli hater”, “le fake news” sono termini familiari che sentiamo ripetere ogni volta che si parla di web e interazioni online. Ma è davvero questo il modo migliore per descrivere quanto sta succedendo? È così compromessa la situazione online, tanto da far pensare a molti che è meglio starne alla larga?
Nel 2006 la rivista Time, per la consueta copertina dedicata alla persona dell’anno, scelse “You”, “tu”; sulla pagina era riportato lo schermo di un computer con sotto la scritta: “Sì, tu! Tu controlli l’età dell’informazione. Benvenuto nel tuo mondo”. Dieci anni dopo la rivista, in un numero estivo del 2016, riportava in copertina un troll, l’animale fantastico che descrive l’atteggiamento distruttivo online, con il titolo: “Perché stiamo perdendo internet a causa della cultura dell’odio”. Credo che queste due copertine descrivano bene i sentimenti di ambivalenza che abbiamo nei confronti di internet: da una parte un mondo pieno di possibilità e potenzialità, dall’altra un ambiente deleterio in cui sembra non si possa costruire molto perché l’odio e lo scontro la fanno da padroni.
In realtà, le due prospettive hanno lo stesso limite: guardano al web come se fosse un mezzo a sé, da considerare indipendente dagli esseri umani e dal loro modo di entrare in relazione. Attribuiscono, insomma, alla tecnologia una centralità e un potere così determinanti da superare la capacità di decisione umana. L’impasse sul web “luogo di meraviglie e di odio” dipende da questo specifico punto di vista da cui lo si osserva. Cosa succede se si capovolge la prospettiva? Se si rimette al centro dell’osservazione l’unico vero protagonista della questione e cioè l’uomo, che nella connessione stabilisce le sue relazioni, costruisce e negozia con gli altri i significati, si muove e vive nella dimensione online così come fa in quella offline?
Da questo punto di osservazione il web e i social appaiono sotto un’altra luce. Ci mostrano quanto è successo negli ultimi decenni: la svolta digitale ha prodotto una grande rivoluzione nelle nostre vite. A dire il vero, le novità sono state moltissime, ma quella più caratterizzante, che davvero ci ha messo in una nuova condizione di vita e di socializzazione, è soprattutto una: l’incontro quotidiano, immediato, costante con la diversità dell’altro. Un incontro che avviene anche quando non è cercato, e voluto: viviamo ormai interconnessi e tutto ciò che facciamo ed esprimiamo, che ci piaccia o no, è esposto al contatto con altri, così come tutto ciò che fanno ed esprimono altri diversi e distanti da noi ci arriva vicino, ci tocca, entra nella nostra vita.
L’uomo da sempre è abituato a gestire le sue cerchie sociali con una dose di differenziazione: prima di tutto gli affetti e gli affini (la famiglia, le amicizie ristrette), poi il lavoro, la società, la dimensione pubblica. In questa gestione si tende a stare bene con i propri simili e con le persone con cui si condividono idee, linguaggi, prospettive, mentre si tiene a distanza ciò che è altro. Nell’interconnessione (anzi, in quella che molti definiscono iperconnessione, proprio perché è una connessione che va oltre le nostre intenzioni), tenere le cerchie separate e distanti è quasi impossibile. Si scrive un post su Facebook, magari una frase ispirata, e subito si riceve un commento da qualche semi-sconosciuto che con parole, toni, modalità non affini si presenta con la sua diversità a sfidare il nostro contenuto.
Ed è un’esperienza che si ripete costantemente a tutti i livelli: l’esperto che online si sente dire “lei che ne sa” proprio sulla sua materia; il programma televisivo che riceve applausi scroscianti e frasi di odio in egual misura sul medesimo contenuto; personaggi famosi che diventano oggetto di critica per ogni cosa che dicono; persone comuni che trovandosi in disaccordo su temi importanti finiscono a litigare in modo furibondo, dimenticando l’oggetto della questione.
Ridurre tutte queste dinamiche a “odio online” o “popolo del web” sarebbe un errore. Questi non sono che preziosi “sintomi” che ci mostrano qualcosa di davvero interessante: attraverso la tecnologia abbiamo potenziato una delle possibilità umane più promettenti, quella di entrare in contatto con mondi, linguaggi, interlocutori diversi rispetto alle piccole cerchie sociali in cui ci muoviamo abitualmente. Questo incontro è sì faticoso e impegnativo, ma è anche il modo più comune per progredire.
Da sempre nella storia, infatti, gli incontri con nuovi mondi e nuove culture hanno portato a miglioramenti. Ed è sempre successo anche nel piccolo delle nostre vite: ognuno di noi sa quanto le migliori idee vengano spesso dalle divergenze di opinioni e dai dissensi molto più che dal consenso e dal compiacimento tra chi è già d’accordo. In qualche modo, l’iperconnessione ci ha messo in una situazione di costante “messa alla prova” delle nostre convinzioni di fronte al dissenso dell’altro. Possiamo vederla come un’occasione proficua e approfittarne, oppure rifiutarla come un disagio a cui non ci si vuole sottoporre (dando ad esempio tutta la colpa al web). Vale per tutti: per l’esperto che di fronte a quel “lei che ne sa” può reagire maltrattando l’altro, magari trovando nell’ignoranza diffusa un alibi, oppure cogliere l’occasione per dimostrare le proprie competenze proprio per rispondere a quella mancanza di consapevolezza; per il personaggio pubblico, il politico, che di fronte ai commenti scomposti può reagire girandosi dall’altre parte, quella osannante, oppure osservare un disagio che è reale e decidere di occuparsene. E così via fino ad arrivare al modo che ognuno di noi ha di interagire nell’iperconnessione con gli altri.
Se tutti siamo stati ammessi alla conversazione pubblica (come hanno permesso i social e il web), siamo tutti chiamati a diventare dei conversatori, capaci di gestire non tanto il consenso (che già avremo dai nostri), ma soprattutto il dissenso degli altri che incontreremo nella connessione. È finita l’epoca (se mai fosse iniziata) della comunicazione felice, che mette tutti d’accordo; l’iperconnessione ci chiede un nuovo modello di cittadino-comunicatore capace di condurre dispute felici che sappiano tenere in relazioni costruttive proprio quelli che non sono d’accordo.
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