Deviare dal tema, andare sul personale, invocare principi, ci permette di “ridurre il carico” della fatica di argomentare e sostenere ciò di cui siamo convinti di fronte a un altro che sta sfidando il nostro mondo (in maniera più o meno scomposta). Ogni volta che discuto sento in me emergere la tentazione di adottare una di queste strategie. E ogni volta è una grande fatica.
Un tempo ce la cavavamo gestendo e dosando i nostri incontri con la differenza, ma non eravamo iperconnessi. Oggi nessuno può davvero controllare da quale parte la diversità (di opinioni, di visione, di idee, di linguaggio) entrerà nei suoi spazi online. E non conta la competenza (anche persone coltissime cadono in battibecchi poco edificanti), non è questione di carattere (persino i più imperturbabili cedono quando gli si toccano certi argomenti), è proprio qualcosa che ci portiamo dentro come esseri umani. Facciamo tutti fatica, nessuno è “nato imparato” a discutere.
Non sono i social che ci fanno litigare, i social semplicemente ci tengono tutti più vicini, rivelando quanta strada abbiamo da fare per essere all’altezza della società plurale che abbiamo costruito. Non a caso una delle tentazioni più forti che aleggia nell’aria è proprio revocare pluralità e differenze per ridurre la pressione. E si manifesta in molti modi (ognuno ha il suo): dai più primitivi, come il cancellare, bannare, espellere dai propri spazi online tutto ciò che non ci aggrada (che spesso diventa una tentazione che sfocia anche nell’offline...); a quelli più culturalmente raffinati di sostenere che solo i titolati o i competenti dovrebbero avere facoltà di parola su certi temi.
La realtà è che non ce la caveremo “spegnendo la diversità ” (si presenterà a ogni prossimo post) ma tenendo acceso il cervello con il desiderio di affrontarla. Non è facile ma le alternative sono due: fare la differenza discutendo, oppure subire la differenza litigando e chiudendosi in piccoli gruppi omogenei di consenso. A noi la faticosa scelta.
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