di Vera Gheno
Oggi, quindici anni più tardi, se traccio un bilancio è un bilancio ben strano: sono tuttora precaria, ma vivo una vita densa di parole; insegno all’università, da contrattista, giro per le scuole a insegnare etica della comunicazione, collaboro con l’Accademia della Crusca (da quasi vent’anni!) gestendone il profilo Twitter e partecipando ai lavori della consulenza linguistica, ma anche con Zanichelli, soprattutto per questioni inerenti al mitico vocabolario Zingarelli – che per un’amante delle parole è il massimo, direi; tengo corsi di formazione per giornalisti, aspiranti copywriter, anziani, docenti e, come se non bastasse, traduco letteratura dall’ungherese e scrivo libri (finora saggistica, sempre sul solito tema, ma chissà...).
Sono lavorativamente soddisfatta? Sì, anche se non è per nulla facile esserlo. L’incertezza, economica e lavorativa in generale, è grande; non ho mai un’idea chiara di cosa sarà di me da un anno all’altro, e questo non aiuta di certo. Però, complice il fatto che le mie condizioni lavorative sono state sempre così, con il passare degli anni ho trovato una sorta di pace interiore. Intanto, ho la fortuna di fare esattamente quello che mi piace di più: mi occupo di parole, dalla mattina alla sera. E non di parole e basta: tramite le parole, mi occupo delle persone. Nei miei corsi cerco di coniugare la parte di nozioni a quella di umanità, nella convinzione che la vera intelligenza sia relazionale. Non lo dico mica io, questo, ma lo sintetizza efficacemente per esempio Gramsci: «Cultura non è possedere un magazzino ben fornito di notizie, ma è la capacità che la nostra mente ha di comprendere la vita, il posto che vi teniamo, i nostri rapporti con gli altri uomini. Ha cultura chi ha coscienza di sé e del tutto, chi sente la relazione con tutti gli altri esseri» (Antonio Gramsci, Socialismo e cultura, in Il grido del popolo, 29 gennaio 1916)
Proprio la percezione della relazione con tutti gli altri esseri è forse il lato che cerco di preservare di più nel mio lavoro; sarebbe facile ripiegarsi in sé, rimanere a rimirarsi la lanugine nell’ombelico – come dice scherzosamente la mia amica e collega Lorenza Alessandri (che tra l’altro ha scritto una piccola grammatica pensando proprio ai suoi studenti, e che vi consiglio proprio per l’attenzione che lei ha riservato alle loro esigenze) – perché è un po’ il presente che spingerebbe a farlo: nell’incertezza, meglio concentrarsi su quello che conosciamo bene e che ci dà, di conseguenza, un po’ di sicurezza. E invece, conviene fare sempre lo sforzo di mantenere aperto il canale di comunicazione con gli altri, col tessuto sociale che abbiamo attorno.
Perché questa non rimanga una semplice dichiarazione di intenti, ecco qualche esempio di piccole cose quotidiane (tanto per rispolverare Franco Battiato e La cura) che migliorano sensibilmente la qualità della mia vita (lavorativa e non, dato che sono in perenne movimento):
1) Ringrazio sempre chi svolge un servizio per me e, per quanto nervosa, cerco di non prendermela con lui/lei. Il caso classico è quello degli addetti ai controlli di sicurezza agli aeroporti: è facile sentirsi presi di mira, reagire pensando “uffa! Perché proprio a me?”; ma se si mantiene la calma, si capisce quasi subito che quelle persone stanno in linea di massima facendo il loro lavoro. Anche quando mi è capitato di essere realmente presa di mira – per questioni che qui non sto a specificare – mantenere uno stato d’animo per quanto possibile sereno mi ha sempre messa al riparo da conseguenze più gravi. La parolina magica è grazie, magari accompagnata da un sorriso.
2) Prendo con filosofia le avversità organizzative che, ovviamente, affliggono i miei spostamenti (non certo una rarità, in Italia). Ne approfitto per scrivere (sto sempre scrivendo qualcosa, ultimamente), stare sui social (certe fissazioni non passano mai di moda) o, in mancanza di connessione, leggere un libro. Esiste anche la possibilità di dormire, a volte! Insomma, incredibilmente, quando ci si smette di arrabbiare troppo per gli imprevisti, diventa tutto tempo prezioso da impiegare in maniera creativa. Non che non provi disagio, intendiamoci. Solo che mi rendo conto che alla fine arrabbiarsi troppo fa solo venire le rughe.
3) Pratico la filosofia del RAOK, random act(s) of kindness, ‘atto/i casuale/i di gentilezza’. Piccole cose: compro un libro dal venditore per strada, raccolgo una cartaccia da terra, aiuto una persona sul treno a sistemare la valigia nella cappelliera, spiego a un viaggiatore dall’aria spaesata dove deve dirigersi in aeroporto. O fornisco istruzioni all’automobilista che si è perso, traduco una frase in inglese a qualcuno che non riesce a capire, faccio da interprete tra due persone che non trovano una lingua per intendersi, apro la fontanella al cane randagio che ha palesemente sete; sul lavoro, creo connessioni tra “mondi” diversi mettendo in contatto le persone che conosco e che stimo. Quel “grazie” che a volte arriva (a volte no, ma mica si è gentili solo per sentirsi dire grazie), o quel “bau” altrettanto grato, sono una piccola spinta propulsiva per andare avanti. Piccole cose, nessuna che mi comporti sforzi sovrumani, nessuna che cambierà il mondo. In generale, direi che provo a tenere aperto un canale di connessione con il prossimo, cosa che, quando si è stanchi, tristi, presi dalle proprie questioni, non è affatto facile.
Lungi dall’essere una persona “buona”, o con la vocazione alla bontà, ho trovato queste tre modalità per vivere meglio la vita complicata che mi sono, in buona parte volontariamente, creata.
Detto questo, ho come tutti i miei momenti di crisi, le depressioni, le ansie, le tristezze. Ma ricordo, sempre, una cosa molto saggia che mi ha insegnato la mia nonna ungherese, Irén: “Non andare mai a letto arrabbiata con qualcosa o con qualcuno, perché poi dormirai male e l’indomani ti sveglierai peggio”. Così, ogni sera, assieme allo smog, con la doccia cerco di lavarmi via di dosso anche i sentimenti negativi.
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