Qualche tempo fa Vera Gheno (riporto qui sotto l’articolo) ha avviato una riflessione sugli errori che possono fare gli esperti quando sui social si trovano ad affrontare discussioni su argomenti che conoscono bene.
I tre errori evidenziati nell’articolo – rivendicazione della competenza, fatica di rispiegare, inadeguatezza dei social all’approfondimento – si potrebbero sintetizzare in un’unica espressione: “Io ne so di più e non ho voglia di discuterne”.
Trovo davvero interessante riflettere su questa dinamica in cui tutti, in un modo o nell’altro, cadiamo. È una specie di alibi che ci procuriamo ogni volta che, in una discussione pubblica (sui social lo è sempre), i nostri interlocutori mettono alla prova le nostre competenze, anche se non hanno titoli per farlo.
Sì, perché di questo si tratta: per quanto ignorante o gretto, il commento di un altro che sfida le nostre conoscenze ha l’effetto della “domanda scema” in una classe di liceo. Chiunque abbia insegnato ha sperimentato quel momento in cui un alunno senza vergogna chiede qualcosa di così basilare e elementare da distruggere in un sol colpo i dotti castelli argomentativi dell’insegnante. Sui social, l’interlocutore non esperto che sfida il competente destabilizza allo stesso modo.
Da qui le manovre evasive di cui sopra, che sono fondamentalmente il rifugiarsi nel mondo sicuro delle proprie competenze riconosciute per non dover fare la fatica di rielaborarle. Fa parte di questo atteggiamento difensivo anche il blastare l’altro, colpendolo in modo aggressivo nelle sue lacune.
Il risultato infatti non cambia: se qualcuno non ha capito o non è d’accordo, non c’è strategia peggiore che sferzarlo proprio nella sua incomprensione. L’unico effetto che si ha è quello di creare una rottura sul piano della relazione, aggiungendola a quella già presente sul piano dei contenuti. Il meta-messaggio che si tramette poi è di grande fragilità e insicurezza: chi davvero solido culturalmente si metterebbe a inseguire l’ignorante nel suo ignorare? Piuttosto, sceglierebbe il silenzio.
In altre parole: dedicare energie per far notare all’altro quanto è manchevole è sintomo in qualche modo di una mancanza di solidità; sarebbe meglio investirle piuttosto nell’argomentare, nello spiegarsi, nel mostrare sul campo che si hanno ragioni da offrire.
La “domanda scema”, cioè quella che viene dal basso, poco competente e mal posta, rappresenta invece un’opportunità enorme per chiunque abbia qualcosa da dire. Intanto perché aiuta a uscire dalla autoreferenzialità di cui è affetto ogni campo della conoscenza, poi perché spinge a ripercorrere le proprie argomentazioni purificandole da elementi di nicchia poco comprensibili; infine, la messa alla prova democratica, orizzontale e plurale delle idee ha da sempre portato a molte più intuizioni che l’autoconservazione del pensiero in cerchie elitarie. Insomma, lo sforzo di comunicazione arricchisce la conoscenza e non è mai uno spreco.
C’è infine un effetto sociale, direi quasi politico, da non sottovalutare, visto che siamo tutti inseriti in una conversazione pubblica globale a cui ogni essere umano ha accesso grazie al web, senza selezione all’ingresso. Tutte le volte che un esperto in un certo campo si ritrae dall’articolare il suo pensiero o si limita a blastare l’ignoranza altrui, sta lasciando lo spazio a chi, con risposte inattendibili, saprà raccogliere quelle domande solo per avere consensi. In poche parole: a ogni disputa evitata per snobismo culturale c’è un populista (o un manipolatore) che ottiene un nuovo seguace.
Rispondere e rimanere sul campo ad argomentare non è una pia pratica per esperti pazienti; è ciò da cui dipenderà sempre di più il livello culturale del dibattito nella nostra società interconnessa.
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Una riflessione sulla divulgazione in rete: quali sono gli errori dei comunicatori?
Anche i divulgatori possono commettere degli errori tattici nella comunicazione. Vediamone alcuni
Molti linguisti, sociologi ed esperti di comunicazione si sono occupati di tipizzare le reazioni degli utenti medi in rete. Anche io ne parlo, nel mio nuovo libro che dovrebbe uscire a ottobre (Social-linguistica: questioni di lingua e di vita sui social network): i noivoisti, i benaltristi, i complottisti. Del resto, siamo tutti più o meno coscienti delle difficoltà di interazione che si ripropongono continuamente nelle discussioni online: conosciamo a menadito le definizioni di bias o pre-giudizio, di echo chamber o filter bubble, per citarne solo alcune.
Vorrei, qui, in poche righe, occuparmi di una questione correlata: le difficoltà che hanno, invece, quelli che sarebbero titolati a spiegare un certo argomento, nel rapportarsi con la “massa” degli utenti, non sempre ben disposti. Perché va detto: anche quando si hanno le competenze, è estremamente complesso non cadere in vere e proprie trappole interazionali che ci fanno, impercettibilmente ma inesorabilmente, scivolare verso il torto. Eccone tre esempi.
A chiunque, anche al più santo degli esperti, a un certo punto viene voglia di esplicitare l’argomento della competenza. Purtroppo, per quanto la rivendicazione delle proprie conoscenze sia sacrosanta, l’impressione che si dà autocertificandosi in maniera più o meno esplicita non è mai positiva.
Certo, aggiungo che, almeno io, quando mi rapporto alle persone su una questione che magari conosco bene, vado a vedere chi sia il mio interlocutore, e il mio livello di “spiegoneria” sarà diverso se ho a che fare con una persona che ha una formazione specifica in un determinato campo oppure no. Quindi: consiglio di evitare il “fidati, ne so più di te”, che non funzionerà con chi ha un pre-giudizio ben radicato e non ha la minima intenzione di cambiare idea, mentre credo sia buona norma andare a vedere chi siano i nostri più accesi oppositori per capire se è il caso di continuare a dare spiegazioni, oppure se sia meglio lasciar perdere.
La risposta è sì: occorre quasi sempre rispiegare quanto più possibile. Purtroppo, il modo odierno di conoscere la realtà è estremamente orizzontale: ci si tende ad appiattire su un presente cognitivo senza profondità temporale.
Guardiamo i comportamenti stigmatizzati da gruppi Facebook come Raccolta statistica di commenti ridondanti: nessuno sembra prendersi la briga non solo di approfondire le conoscenze su un certo argomento, ma nemmeno di leggere i commenti in una discussione precedenti al proprio.
Per esempio, conto a centinaia le persone che, quando si discute della questione del femminile dei nomi di professione, cita con scherno la richiesta di Laura Boldrini di essere chiamata presidenta: questa notizia è falsa, creata ad hoc da alcune testate giornalistiche, ed è stata più volte confutata dall’interessata, dall’Accademia della Crusca, chiamata a sua volta in causa, e da svariate decine di persone coinvolte nelle discussioni. Eppure…
Quindi che fare? Sicuramente, secondo me, evitare di rifugiarsi dietro a commenti come “non posso certo mettermi a rispiegare tutto”; forse, non possiamo davvero metterci ogni volta a farlo, ma dobbiamo tener conto di questa debolezza cognitiva e dare una mano a chi ci legge: fornendo, ad esempio, link di approfondimento e risposte compunte, informate e circostanziate, tutte le volte che possiamo. Non tutti hanno la competenza di cercarsi da sé le fonti valide su Google. Chi lo sa fare meglio, può aiutare gli altri.
Altro errore, spesso commesso in buona fede, degli esperti: pensare ai social come un contesto di “cazzeggio”, nel quale non ci si può dilungare più di tanto. Di fatto, sfruttando la nota caratteristica ipertestuale della rete, si possono fornire link per approfondire e chiarificare, cercando anche, nel poco spazio disponibile, di dare quante più informazioni possibili. Una vera faticaccia, concordo, ma forse l’unico modo per non fermarsi al livello del “blastare”, ossia del prendere in giro gli ignoranti, ma per cercare di svolgere davvero il ruolo di comunicatori e divulgatori al quale molti di noi aspirano. Blastare dà un’enorme soddisfazione momentanea, ma dal mio punto di vista non fornisce vere soluzioni.
Ricordiamo, infine, che il comunicatore avrebbe pure il ruolo di “tradurre” informazioni specialistiche a uso e consumo dei non specialisti. Non arrocchiamoci, quindi, nei paroloni, ma facciamo lo sforzo di parlare in maniera chiara e semplice.
Vorrei, qui, in poche righe, occuparmi di una questione correlata: le difficoltà che hanno, invece, quelli che sarebbero titolati a spiegare un certo argomento, nel rapportarsi con la “massa” degli utenti, non sempre ben disposti. Perché va detto: anche quando si hanno le competenze, è estremamente complesso non cadere in vere e proprie trappole interazionali che ci fanno, impercettibilmente ma inesorabilmente, scivolare verso il torto. Eccone tre esempi.
La rivendicazione della competenza
A chiunque, anche al più santo degli esperti, a un certo punto viene voglia di esplicitare l’argomento della competenza. Purtroppo, per quanto la rivendicazione delle proprie conoscenze sia sacrosanta, l’impressione che si dà autocertificandosi in maniera più o meno esplicita non è mai positiva.
Certo, aggiungo che, almeno io, quando mi rapporto alle persone su una questione che magari conosco bene, vado a vedere chi sia il mio interlocutore, e il mio livello di “spiegoneria” sarà diverso se ho a che fare con una persona che ha una formazione specifica in un determinato campo oppure no. Quindi: consiglio di evitare il “fidati, ne so più di te”, che non funzionerà con chi ha un pre-giudizio ben radicato e non ha la minima intenzione di cambiare idea, mentre credo sia buona norma andare a vedere chi siano i nostri più accesi oppositori per capire se è il caso di continuare a dare spiegazioni, oppure se sia meglio lasciar perdere.
La fatica di rispiegare
La risposta è sì: occorre quasi sempre rispiegare quanto più possibile. Purtroppo, il modo odierno di conoscere la realtà è estremamente orizzontale: ci si tende ad appiattire su un presente cognitivo senza profondità temporale.
Guardiamo i comportamenti stigmatizzati da gruppi Facebook come Raccolta statistica di commenti ridondanti: nessuno sembra prendersi la briga non solo di approfondire le conoscenze su un certo argomento, ma nemmeno di leggere i commenti in una discussione precedenti al proprio.
Per esempio, conto a centinaia le persone che, quando si discute della questione del femminile dei nomi di professione, cita con scherno la richiesta di Laura Boldrini di essere chiamata presidenta: questa notizia è falsa, creata ad hoc da alcune testate giornalistiche, ed è stata più volte confutata dall’interessata, dall’Accademia della Crusca, chiamata a sua volta in causa, e da svariate decine di persone coinvolte nelle discussioni. Eppure…
Quindi che fare? Sicuramente, secondo me, evitare di rifugiarsi dietro a commenti come “non posso certo mettermi a rispiegare tutto”; forse, non possiamo davvero metterci ogni volta a farlo, ma dobbiamo tener conto di questa debolezza cognitiva e dare una mano a chi ci legge: fornendo, ad esempio, link di approfondimento e risposte compunte, informate e circostanziate, tutte le volte che possiamo. Non tutti hanno la competenza di cercarsi da sé le fonti valide su Google. Chi lo sa fare meglio, può aiutare gli altri.
I social come contesto inadatto all’approfondimento
Altro errore, spesso commesso in buona fede, degli esperti: pensare ai social come un contesto di “cazzeggio”, nel quale non ci si può dilungare più di tanto. Di fatto, sfruttando la nota caratteristica ipertestuale della rete, si possono fornire link per approfondire e chiarificare, cercando anche, nel poco spazio disponibile, di dare quante più informazioni possibili. Una vera faticaccia, concordo, ma forse l’unico modo per non fermarsi al livello del “blastare”, ossia del prendere in giro gli ignoranti, ma per cercare di svolgere davvero il ruolo di comunicatori e divulgatori al quale molti di noi aspirano. Blastare dà un’enorme soddisfazione momentanea, ma dal mio punto di vista non fornisce vere soluzioni.
Ricordiamo, infine, che il comunicatore avrebbe pure il ruolo di “tradurre” informazioni specialistiche a uso e consumo dei non specialisti. Non arrocchiamoci, quindi, nei paroloni, ma facciamo lo sforzo di parlare in maniera chiara e semplice.
Quindi?
- Cerco di non perdere mai la pazienza: rispiego, rigiustifico, ignoro le reazioni scomposte.
- Cerco di usare le “parole giuste”. Mi soffermo a riflettere su come si possano dire certe cose nella maniera più chiara possibile.
- Non parlo mai, anche delle cose che conosco bene, portando solo la mia competenza (non dico mai “fidati di quello che ti sto dicendo”), ma fornendo sempre rimandi a fonti valide che avallino la mia posizione.
- Cerco di valutare, di momento in momento, se ha senso continuare la discussione. Se dall’altra parte scopro esserci un mitomane, per esempio, la smetto, perché non c’è nessuna predisposizione alla disputa felice, come direbbe il mio collega Bruno Mastroianni, che contestualmente invito a dire la sua su questo argomento.
- Infine, anche quando tutto mi sembra senza speranze e il contesto completamente ostile, mi ricordo di quanto sia importante la maggioranza silenziosa di coloro che leggono, e leggeranno, le mie risposte, e si faranno, nel silenzio del loro lurking, la loro idea personale sulla questione. Quando gli interlocutori diretti sembrano darci grandi dolori e grattacapi, ricordiamoci che scripta manent e che ognuno dei lettori presenti e futuri di quello che abbiamo scritto avrà la possibilità di fruire positivamente delle nostre parole.
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