di Bruno Mastroianni (tratto da Dibattiti online: oltre le contrapposizioni in La Missione digitale, Edusc 2016, pp.69-74)
Da sempre, muoversi in gruppo dà un riscontro umanamente appagante: ci si riconosce, si appartiene, ci si fa forza. Se poi questo accade in discussioni a più interlocutori, aumenta l’effetto gratificante: chiunque apprezza un applauso, un attestato di stima, un sostegno manifestato esteriormente da una moltitudine, grande o piccola che sia. Sui social network accade qualcosa di simile con i like, le condivisioni e i commenti che si ricevono quando si pubblica qualcosa. Si ha la sensazione che più conferme si ricevono, più si è riusciti a dire qualcosa di significativo.
Ma cosa succede se a dare queste conferme e plausi in realtà è un gruppo che, per quanto numeroso, è composto da persone che la pensano allo stesso modo? Si rischia di entrare in una di quelle bolle online, le cosiddette echo chambers, letteralmente “casse di risonanza” o “camere degli echi”, dove persone con opinioni simili si scambiano contenuti e idee che si confermano a vicenda, facendosi eco l’un l’altra.
Le echo chambers ricordano le “comunità fortezza” di cui parla Bauman: gruppi di persone che si uniscono in base a un consenso e che si separano da quanti sono diversi da loro. Esiste un filone di studi che ha analizzato il funzionamento di questi gruppi, osservando ad esempio il comportamento di utenti su facebook (...).
La tendenza è quella di vedere ogni informazione attraverso lenti polarizzate dalla propria inclinazione (favorevole o sfavorevole) nei confronti dell’informazione stessa insomma, esiste una sorta di combinato disposto tra convinzioni forti (ad esempio convinzioni politiche o l’adesione a teorie pseudo-scientifiche), coesione sociale (l’appartenenza a una comunità o a un gruppo che condivide quelle concezioni) e sospensione della naturale verifica delle informazioni con annessa incapacità di cambiare prospettiva.
Un caso eclatante che ha riassunto plasticamente questa dinamica è accaduto qualche tempo fa su facebook: un utente ha pubblicato una foto dal set del famoso film degli anni ’90 Jurassic Park, in cui il regista Steven Spielberg appariva seduto e sorridente appoggiato al pupazzo di un triceratopo morto con la seguente frase: “foto disgraziata di un cacciatore sportivo felice accanto a un triceratopo appena colpito Per favore condividi affinché il mondo possa riconoscere e provare vergogna per questo uomo spregevole”.
Il post è diventato virale in poco tempo, con condivisioni e commenti da parte di utenti in difesa degli animali, molti dei quali così accecati dall’affronto da non accorgersi dell’assurdità della foto. Lo potremmo chiamare “effetto triceratopo”: quando una forte convinzione (sentimento di difesa degli animali) si unisce al riflesso dello spazio di contrapposizione (protestare per ciò che minaccia le mie convinzioni), amplificato dal senso di appartenenza a un gruppo coeso di opinione (animalisti vs cacciatori), si provoca una sorta di temporanea sospensione della razionalità e della capacità di valutazione su ciò che si sta vedendo (che in realtà è un pupazzo di dinosauro in un set cinematografico).
In altre parole, nella dinamica dello “spazio di contrapposizione” si ha una specie di offuscamento della vista razionale in nome della protesta in gruppo contro qualcosa che va contro le convinzioni del gruppo stesso. Un’interazione tra tutte riassume l’effetto: tra i vari commenti, un utente cerca di far notare che “quello è Steven Spielberg, regista di Jurassic Park!” ricevendo in risposta: “non importa chi sia, non avrebbe dovuto sparare a quell’animale”.
La conclusione: non bastano campagne informative e azioni debunking, così come hanno forti limiti i progetti che puntano all’automatizzazione della verifica tramite inserimento di criteri di attendibilità negli algoritmi dei motori di ricerca; per riuscire a far cambiare prospettiva a chi ha convinzioni forti e poco fondate ci vuole qualcosa di più.
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