di Bruno Mastroianni, News and Coffee, 26 luglio 2017
Diciamocelo: sui social siamo tutti in un modo o nell’altro un po’ complottisti. Un articolo di Vera Gheno (riportato in fondo a questo) mi ha spinto a riflettere sul perché abbiamo questa tendenza, che non è qualcosa che affligge solo alcune persone problematiche. Facendo un po’ di auto-esame infatti mi rendo sempre più conto che nelle conversazioni abituali online, soprattutto quelle che hanno a che fare con temi di attualità, ho un istinto ricorrente: quello di individuare il colpevole, il responsabile unico, l’elemento che spiega il tutto.
Uscendo dal mio caso personale e vedendo l’abituale svolgersi di interazioni sui social, si nota quanto questo istinto sia associato poi alla voglia di dare un nome al male: che sia “maschilismo”, “cripto-fascismo”, “buonismo”, “credulità”, “piaggeria”, tendiamo a definire con un’etichetta il pensiero dell’altro, ancora prima di averlo ascoltato, come per contenerlo e non dover fare la fatica di argomentare se abbiamo qualcosa su cui dissentire.
Più che da ignoranza, aggressività o nervosismo (che pure c’entrano) credo che questo atteggiamento venga soprattutto dall’istinto umano basilare di voler risolvere e sistemare (almeno nel propio immaginario) le questioni, potendole definire con precisione, individuando in modo netto anzitutto i cattivi, per potersi mettere dalla parte opposta (quella dei buoni). Per stare al sicuro, per non sbagliare, anche per evitare di esporsi troppo.
Nella maggior parte delle volte, infatti, l’aggressività che generano simili commenti è proporzionale alla complessità delle situazioni che affrontano. Dai vaccini al problema dei migranti, dai casi di bioetica alle questioni politiche e economiche: tutte situazioni in cui l’animo umano avverte l’inquietudine di essere di fronte a realtà difficili e impegnative che, proprio perché non soggette a soluzioni immediate e preconfezionate, inquietano. Da qui la reazione difensiva.
Prendere in considerazione la complessità ci piace fino a un certo punto perché non è “coperta” dalle nostre certezze. Così come ci mette a disagio discutere con chi dice qualcosa di radicalmente opposto a ciò che pensiamo, incrinando il nostro mondo di sicurezze. Di fronte a questi “fastidi” scatta l’autodifesa: è il momento di chiudere la vicenda, istituire un piccolo tribunale interno, veloce e pratico, per sentenziare al più presto un “la colpa è di…”, e così definire senza zone grigie la propria posizione. Trovare un colpevole “altro”, possibilmente distante e molto più grande di sé, è un modo per evitare lo sforzo di andare davvero fino in fondo sui diversi temi.
Un esempio lampante è quando questa pratica scade in eccessi dai toni macchiettistici nell’uso di super-interlocutori generici - “i poteri forti”, “la politica”, “le multinazionali” - a cui spesso vengono date colpe su questioni che invece ci riguardano da molto vicino come le relazioni sociali, la partecipazione pubblica, il nostro modo di discutere e di usare Facebook nel quotidiano.
Ritengo che sia importante osservare il fenomeno nella sua qualità ordinaria e universale e non ridurlo solo alle sue manifestazioni più paradossali e pittoresche. Non c’è infatti una schiera di complottisti composta da una categoria di umani speciali (che hanno qualcosa in meno) quanto piuttosto un’intera umanità che, alle prese con l’iperconnessione, fa fatica a stare dietro alla grande libertà che abbiamo acquisito nella conversazione pubblica costante.
Dare la colpa a qualcosa di grande e sufficientemente indefinito è un istinto che abbiamo tutti: dispensa dal dover prendere davvero su di sé il problema e capirne le reali e concrete conseguenze sulla propria vita e sulla propria realtà quotidiana. Questo sforzo infatti, richiede sempre una certo disagio: quello di scoprire che poi, alla fine, ogni vicenda umana richiede un certo cambiamento personale - di vedute, di atteggiamento, di abitudini. Ammetterlo, riconoscerlo, è faticoso perché mette di fronte al vero responsabile di ciò che riguarda la nostra vita: noi stessi e il modo di vivere la libertà che ci siamo procurati.
—-
Sopravvivere ai social e alla calura estiva senza cadere nel complottismo
Che poi, in fondo, quando la scelta migliore è tacere, sarebbe meglio tacere davvero
Questa sul complottismo non è una riflessione che nasce da un evento in particolare, ma da quanto vedo succedere di continuo, giorno dopo giorno, sui social (e fuori dai social), attorno a me. Anche la notizia più piccola riesce spesso a polarizzare le opinioni con estrema rabbia e violenza. L’opinione pubblica, però, giova ricordarlo, non è e non deve essere considerata una massa indistinta: è fatta di persone, ognuna delle quali, almeno nominalmente, è dotata di cervello e di raziocinio. Per questo, secondo me, invece che lamentarsi della “stupidità della ggènte, signoramia”, si può fare qualcosa in prima persona per non diventare parte di quella che sovente i mezzi di comunicazione di massa definiscono, con malcelato disprezzo, “gente comune” o anche “popolo del web”.
Per evitare l’effetto “popolodelweb”, ecco alcune delle domande che mi faccio personalmente quando leggo una notizia sui giornali o la vedo condivisa sui social, prima di commentare o di ricondividerla, magari accecata dall’ira e dall’indignazione. Già, perché sono umana, come tutti, e io stessa ho di continuo la tentazione di sfogare la stanchezza, la frustrazione, la tristezza, le ingiustizie in questa maniera un po’ “low cost”: in fondo, sono seduta dietro al mio computer e, almeno apparentemente, non rischio grandi cose.
Vi suggerisco, inoltre, di seguire Bruno Mastroianni, nuovo contributore di N&C, che su come dissentire senza litigare ha scritto pure un libro, intitolato “La disputa felice” (2017, Firenze, Franco Cesati Editore). Già perché a volte l’attitudine zen mica basta. E allora, ecco una lettura per imparare anche un po’ di tecniche per evitare di diventare complottisti malmostosi.
Per evitare l’effetto “popolodelweb”, ecco alcune delle domande che mi faccio personalmente quando leggo una notizia sui giornali o la vedo condivisa sui social, prima di commentare o di ricondividerla, magari accecata dall’ira e dall’indignazione. Già, perché sono umana, come tutti, e io stessa ho di continuo la tentazione di sfogare la stanchezza, la frustrazione, la tristezza, le ingiustizie in questa maniera un po’ “low cost”: in fondo, sono seduta dietro al mio computer e, almeno apparentemente, non rischio grandi cose.
O invece no?
In sostanza, nella mia testa si accende una spia rossa quando si verifica almeno una delle condizioni seguenti.- Sono la prescelta? Quando ho la sensazione di essere l’unica ad aver capito come stanno le cose, o mi pare di essere la prima ad avere scoperto un’informazione anche se, in realtà, abbiamo tutti all’incirca gli stessi canali informativi a disposizione. Magari potrei pure essere più competente di altri nelle tecniche di ricerca di informazioni in rete, ma che sia proprio io a scoprire la pentola in fondo all’arcobaleno? Fa almeno parziale eccezione il caso in cui si parli di una cosa che rientra nel mio specifico campo di competenze; per quanto mi concerne, per esempio, la lingua italiana. Ma anche in quel contesto non sono onnisciente e, anzi, imparo ogni giorno di più a non dare niente per scontato. Ad esempio, mentre per me era cristallino che si dovesse dire e scrivere gli pneumatici, ecco che un professore che stimo molto, Michele Cortelazzo, smonta anche questa mia certezza.
- Indubbia colpevolezza. Quando una notizia viene presentata indicando senza dubbi e incertezze la persona inequivocabilmente dalla parte del torto, che sembra aver agito per mera cattiveria o puro sadismo. La reazione diffusa sarà di dare addosso, scompostamente, al malvagio, invocando punizioni esemplari e mettendo in moto una vera e propria lapidazione mediatica: “Castrazione chimica!”, “Ci vorrebbe la pena di morte!” giù giù fino ad andare ad attaccare il malvagio sui suoi profili social, augurandogli/le agonia lenta e dolorosa. Spesso, a posteriori viene fuori che il cattivo non era poi così cattivo. Il problema, a quel punto, è che nessuno mette, nel rettificare, lo stesso impegno e la stessa veemenza che aveva profuso nel linciare, perlomeno a parole, il presunto colpevole.
- Vittima al 100%. Quando, d’altro canto, la vittima è talmente vittima che sembra non esserci alcun dubbio sulla solidarietà da manifestarle. La narrazione della vicenda, in alcuni casi, potrebbe anche essere stata concertata o distorta ad arte.
- Noivoismo. Quando tutti, tranne “noi”, sbagliano. Nel momento in cui si inizia a ragionare nei termini di “io” vs. “gli altri” o di “noi” vs. “voi”/“essi”, attenzione: forse stiamo cadendo nella tentazione di una contrapposizione cieca tra il gruppo che conosciamo, e del quale ci sentiamo parte, e il resto del mondo; è il fenomeno che io personalmente definisco noivoismo.
- La dura legge dell’echo chamber. Quando chi solleva qualche perplessità viene silenziato in malo modo. Di solito, il silenziatore non agisce da solo, ma forte dell’appoggio del suo gruppo, della sua echo chamber. Per me, è una forma sottile e subdola di bullismo. “Ma che cosa dici mai? Ma non ti vergogni tu, uno di noi, a mettere in dubbio le parole di…?”.
- L’eretico. Quando chi dissente con controargomentazioni ponderate viene tacciato di malafede. Qualora bullizzare il dissentitore non bastasse per ridurlo al silenzio, magari perché offre argomentazioni circostanziate e che, sotto sotto, provocano un filo di inquietudine perché non sembrano completamente campate in aria, si arriva facilmente all’accusa di eresia: “Allora tu non sei un vero credente/uomo di sinistra/linguista/vegetariano”.
- La laurea presa su Internet. Quando le mie competenze non sono sufficienti per capire il motivo di una decisione, ma siccome “ho letto delle cose su internet” mi viene la tentazione di pensare che la mia opinione valga quanto quella dell’esperto. Il web ha forse aumentato l’illusione che tutte le opinioni contino allo stesso modo, e che informarsi sia alla portata di tutti, ma non è proprio così. Si può dire la propria, questo è chiaro, e sicuramente mai come ora abbiamo avuto accesso alle informazioni, ma occorrerebbe ricordarsi della necessità di ascoltare chi, su un dato argomento, ne sa più di noi (che raramente è “miocuggino”, anche se a volte potrebbe esserlo, dipende con chi siamo imparentati). La mancanza di dubbio sulle proprie competenze, in linea di massima, genera mostri.
- Il GOMBLODDO. Quando per spiegare una serie di eventi vengono tirati in ballo “i poteri forti”. Il jolly delle discussioni, in mancanza di spiegazioni migliori, è il ricorso a sempreverdi come la massoneria, Big Pharma, il Bilderberg, il Nuovo Ordine Mondiale, le multinazionali, gli alieni. Il Grande Potere dall’altra parte potrebbe essere qualunque; il denominatore comune è che normalmente vuole morte e distruzione. Non si capisce bene in nome di cosa, ma questo pare tangenziale. Spesso, quando sembra davvero che ci sia in atto una congiura, mi faccio una domanda semplice: chi ci guadagna, e cosa?
- Parlare alla pancia. Quando ho la sensazione che altri stiano tentando di manovrare la mia indignazione, non parlando più alla mia testa ma alla pancia. A volte, anzi, spesso, ho la netta impressione che la volontà, nemmeno troppo nascosta, sia proprio quella di pilotare l’opinione della massa in una certa direzione, di solito per un tornaconto personale o del proprio gruppo. Sono i momenti in cui ho visto diventare sanguinarie anche enclave che dovrebbero essere votate al pacifismo, alla misericordia e alla comprensione. Secondo me, mentre i cattivi-cattivi sono piuttosto rari, le persone che agiscono per fomentare “la gente” sono più diffuse.
Vi suggerisco, inoltre, di seguire Bruno Mastroianni, nuovo contributore di N&C, che su come dissentire senza litigare ha scritto pure un libro, intitolato “La disputa felice” (2017, Firenze, Franco Cesati Editore). Già perché a volte l’attitudine zen mica basta. E allora, ecco una lettura per imparare anche un po’ di tecniche per evitare di diventare complottisti malmostosi.
Social Plugin