La trasversalità delle connessioni creata dai social ha fatto sì che la diversità – che prima era un’esperienza specifica nella vita – è diventata un aspetto costante e ordinario: il confronto, il conflitto tra idee, la divergenza, sono diventati il modo naturale con cui avvengono le interazioni tra esseri umani. Questa "diversità ordinaria" ci ha sbattuto in faccia ciò che prima potevamo anche non vedere. L’ignoranza, la grettezza, l'odio, la mal sopportazione delle opinioni contrarie, erano qualcosa che si notava solo a tratti. Prima erano nel privato delle case e rimanevano nelle aree sociali circoscritte di dove avvenivano litigi; oppure si consumavano a mo' di show nei dibattiti mediatici; infine potevano sublimarsi in confronti tra persone colte in contesti culturali o accademici. In ogni caso erano sempre per poche persone, in tempi circoscritti. Ora riguardano ciascuno in ogni istante: perché tutti possiamo essere raggiunti dai post, dai commenti e dai tweet degli altri; giacché chiunque, senza permesso e senza filtri, può scrivere tutto ciò che gli passa per la testa.
In questo scenario il sapersi confrontare è una competenza che non spetta più solo ai mediatori culturali, ai diplomatici o ai comunicatori, ma a ogni persona. Grazie al web siamo diventati tutti – volenti o nolenti – “vicini” e non c’è scritto da nessuna parte che questo ci renda automaticamente dei “buoni vicini”. È qualcosa che dobbiamo conquistare giorno per giorno .
È finita l’epoca dei filtri, dei dibattiti preparati, della selezione dei pulpiti mediatici e della trasmissione strategica dei messaggi. È giunto il momento di imparare a confrontare le nostre opinioni sempre e comunque, senza litigare, magari trovandovi gusto e soddisfazione.
È finita anche l’epoca della selezione intelligente degli interlocutori. Per secoli la retorica ha insegnato che vale la pena iniziare dibattiti solo se l’altro è disposto a collaborare. Sarebbe bello poterselo ancora permettere ma, nel mondo dell’iper-connessione trasversale dei social, nessuno può avere il privilegio di escludere interlocutori. Anche un semplice genitore su una chat di WhatsApp della classe, può trasformarsi nel peggior hater di sempre. Rinunciare a dialogare con lui significherà lasciare una moltitudine di persone in balìa di quell'odio. Solo nella misura in cui ci sarà qualcuno disposto a disputare anche con chi è ostile, cambieranno veramente le cose.
Serve insomma intenzionalità e impegno. Perché nonostante siamo gettati in questa situazione di costante confronto non abbiamo abbastanza occasioni per imparare a disputare con il diverso. Non lo studiamo a scuola; non è detto che la professione lo richieda; in famiglia e nei nostri contesti sociali ristretti spesso non riusciamo a farne adeguata esperienza. Eppure tutti, da quando abbiamo uno smartphone in mano, siamo coinvolti nella conversazione pubblica e "costretti" a confrontarci con altri anche molto distanti da noi.
Ecco perché, dopo la #guidasocial (a cui mi sono dedicato negli scorsi mesi), da oggi in poi su questo blog inizierò una riflessione sulla possibilità di trovare pace e felicità nel confronto con l'altro. Io la chiamo la #disputafelice: credo che sia possibile sostenere in modo pacifico la divergenza sia quando c'è semplice disaccordo ma anche quando l'altro vuole litigare o non ne vuol sapere.
Anticamente si diceva che una cosa la conosci solo quando la sai insegnare a un altro (Seneca). Einstein sosteneva che padroneggi solo ciò che sai spiegare a tua nonna. Oggi, nell’epoca della disputa generalizzata e del mondo iper-connesso, cambierei prospettiva: comunicare è farsi capire da chi non è d’accordo. Questa è la #disputafelice, che da oggi cercherò di esplorare in queste pagine.
Attendo, per definizione, suggerimenti, critiche e contributi.
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