di Bruno Mastroianni
Alla fine ammettiamolo, i social sono solo una grande palestra: di self control, di autoironia, di capacità argomentativa, di pazienza, perfino di umiltà. Se non sei distaccato dalle tue idee, litighi. Se te la prendi perché l'altro ti provoca, litighi. Se non ricordi che sei in un ambiente digitale che ti connette con altre persone spesso distratte, litighi.
Insomma il litigio sul web alla fin fine è un'ottima spia di qualcosa che ci succede dentro. Litighiamo perché ci manca qualcosa. Litighiamo quando vogliamo ottenere dall'online ciò che l'online non può darci. La maggior parte dei "mal di pancia da social" nasce dal prendere Facebook o Twitter per luoghi diversi da quello che sono: una grande conversazione globale a cui chiunque può partecipare, in qualsiasi momento, dicendo tutto ciò che gli pare, senza titoli o selezioni all'ingresso. Una grande palestra, non regolamentata, di confronti.
La tentazione del controllo
La cosa interessante è che nessuno ci costringe. Sui social andiamo liberamente e liberamente ci esprimiamo. Decidiamo in ogni momento a quale conversazione partecipare e quale no, a cosa mettere like e cosa condividere. Eppure, spesso, sono proprio le recriminazioni, i "non puoi dire una cosa del genere", le denunce di inammissibilità, le razioni a qualche presunta aggressione dovuta alle idee di un altro, le principali espressioni di dissenso che fanno nascere i litigi.
È un istinto di difesa: vogliamo controllare, filtrare, censurare, regolare, ciò che dicono gli altri. È una reazione che assomiglia a quella di certi adolescenti che ingaggiano battaglie esistenziali contro tutti e tutto ciò che non gli va giù. Vorremmo imporre i nostri criteri agli altri nei loro spazi, come se dovessimo essere noi a regolamentarli. Ci portiamo dentro quella tentazione selettiva e filtrante che caratterizzava lo scenario di comunicazione precedente in cui c'era qualcuno – i giornalisti preposti e gli addetti ai lavori – a dover scegliere per tutti gli altri di cosa si parlava e come. Ci viene spontaneo cercare di riapplicare nostalgicamente quella situazione, ovviamente ognuno secondo i suoi criteri e valori. Da qui la baraonda.
In un recente incontro ho sentito dire le seguenti parole: almeno prima sui giornali c'erano a pagina 1 le cose più importanti e a seguire via via quelle meno rilevanti, fino allo sport che era in fondo; oggi non si capisce più niente. Ecco è precisamente questa la tentazione: voler regolamentare ciò che oggi non può più avere regole a priori, perché per sua natura (social appunto) non può ammettere filtri precostituiti.
Regole, bene o virtù?
Sto forse sostenendo che sui social deve vigere l'anarchia? Tutt'altro: il problema di aggressioni, odio, polarizzazioni, unito al grande guaio della disinformazione, costituisce una bomba a orologeria sociale di cui prendersi cura. Il punto è come. Io credo che in questo campo – come in tanti altri – non sia sufficiente né un approccio utilitaristico (il miglior bene per tutti) né quello deontologico (scegliamo regole chiare a cui attenerci per garantire pace social). In entrambi i casi finiremmo solo a litigare su cosa è il bene o su chi deve far rispettare quali regole e come.
L'unica via percorribile è classica ma attuale: quella della virtù. Anche se il termine è apparentemente desueto, descrive esattamente ciò a cui ci sottopongono gli estenuanti dibattiti sui social. Pensiamo a quando postiamo qualcosa e qualcuno ci corregge con dati, argomenti, fatti migliori: ci vuole molta umiltà (una virtù) per tornare indietro e ammettere l'errore. Pensiamo a quando siamo tediati dal troll che non molla: ci vuole una grande pazienza (virtù) per evitare di ingaggiare alterchi che non portano a niente. Pensiamo a quando siamo in un momento di sovraesposizione per qualche evento che ci coinvolge: ci vuole molta temperanza (virtù) per non ingolfare la nostra timeline di selfie e post autoreferenziali. Si può andare avanti all'infinito: la fortezza di non farsi abbattere dagli haters, la giustizia di dire le cose come stanno e che veramente si conoscono, la sincerità di controllare e verificare prima di diffondere informazioni incerte. Una vera palestra costante.
Scelte e confronti
Educarsi alla virtù è faticoso e impegnativo. Perché le scelte per farle bene, vanno fatte una a una, spesso per tentativi ed errori. La successiva è sempre nuova e richiede di nuovo il ricorso alle nostre energie migliori. Per questo serve un allenamento alla scelta per il bene (che poi è la virtù). Le scelte infatti non sono come le regole o i princìpi: belli distanti, asettici e fuori dal tempo. Per scegliere bisogna sudare nella realtà commento dopo commento, tentando, provando, spesso fallendo e tornado sconfitti sui propri passi. Che poi è il modo, da che mondo e mondo, di imparare davvero qualcosa.
Sui social chi si confronta – anche con chi è maldisposto – migliora se stesso e affina ciò che pensa, perché lo mette alla prova. Chi rinuncia al confronto invece si accontenta di ciò che ha e lo difende d'ufficio. Il primo si muove e progredisce, il secondo non può che restare fermo e ostile.
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