di Bruno Mastroianni, Vita Pastorale, maggio 2016
Anni fa eravamo abituati a pensare che intervenire nell’opinione pubblica fosse uno specifico momento del nostro agire, differenziato dalla vita quotidiana: comunicare significava inviare un comunicato, scrivere una lettera ai giornali, essere intervistati da una TV. Mentre prima era necessario che alcuni conoscessero le tecniche e fossero consapevoli del loro agire (i giornalisti, i personaggi eminenti, i comunicatori), oggi questo compito è affidato a ciascuno, giacché il potere di scegliere e diffondere contenuti appartiene a ogni singolo utente.
Ogni giorno, da quando ci svegliamo a quando andiamo a dormire, compiamo una serie di azioni comunicative: dalle foto che pubblichiamo sui nostri profili sui social network, ai like che mettiamo (o non mettiamo), a ciò che condividiamo, ai commenti, entrando in relazione con moltissime persone. La comunicazione è ormai diventata la prima cosa che facciamo, come una premessa inevitabile, un aspetto essenziale della vita di tutti i giorni, e come tale va curato.
Siamo passati da un modo di comunicare secondo lo schema uno-a-molti a quello di tipo “conversazionale". Prima erano i media classici e gli addetti ai lavori a elaborare determinati prodotti di comunicazione e a diffonderli presso il pubblico generalizzato. Oggi lo scenario è più complesso: oltre ai media classici (che online hanno ancora un forte ruolo di riferimento) gli utenti si scambiano contenuti tra di loro in continua conversazione, e alcuni si sono guadagnati autorevolezza e seguito - i cosiddetti influencer -, diventando capaci di incidere sul dibattito in rete.
Facebook ci dà sempre ragione
Oggi chiunque di noi è in questa conversazione e di fatto è nel suo piccolo un influencer, in grado di influire con il suo comportamento online (positivamente o negativamente) sulla vita di chi è connesso con lui.
Forse non tutti sanno che ciò che appare nelle nostre timeline di Facebook (la schermata in cui ci arrivano i contenuti segnalati dagli altri con cui siamo in contatto) è il frutto di algoritmi che selezionano gli elementi in base a ciò che rientra già nei nostri interessi pregressi. Il rischio è che ciò che leggiamo (e che segnaliamo a nostra volta agli altri) può non essere ciò che è più rilevante, ma un semplice ripetersi di cose che già conosciamo, che ci danno conferme su ciò che già pensiamo. Ciò si può trasformare, nostro malgrado, in un grande impoverimento umano e intellettuale. Non a caso qualche esperto ha sentenziato che uno dei problemi di Facebook è che ci dà sempre ragione.
Quanti curano le proprie timeline per evitare questo effetto? Quanti valutano gli input che ricevono e quelli che diffondono a loro volta? Ai giovani insegniamo che è importante avere buoni maestri e interlocutori autorevoli, ma poi noi lo mettiamo in pratica? Diciamo loro che bisogna allargare gli orizzonti, non restare chiusi “nel proprio giro”, ma noi sul web come ci muoviamo? Porsi queste domande significa scegliere consapevolmente come stare in rete.
Se lo contesti lo diffondi
Qualche tempo fa una ricerca coordinata dal prof. Walter Quattrociocchi dell’IMT di Lucca (Debunking in a World of Tribes,14.10.2015) ha studiato il fenomeno dei “pregiudizi di conferma” nel web: diversi utenti tendono a prediligere i contenuti che rafforzano le loro convinzioni, ignorando visioni alternative e rafforzando i legami con chi la pensa allo stesso modo. E’ la tendenza alla “polarizzazione collettiva” a cui si assiste spesso nelle discussioni online.
È doloroso dirlo ma va riconosciuto: anche le persone di buona volontà possono cadere in questa dinamica. Un’esperienza che può fare chiunque è notare come certe denunce e polemiche inutili, così come la condivisione di contenuti negativi e immorali, possa venire anche da cristiani impegnati. Certo, l’intenzione è quella di protestare e ribellarsi ma se a lungo andare questi contenuti diventano quelli quantitativamente più presenti, il risultato può essere deleterio: un flusso negativo viene alimentato proprio da chi potrebbe farsi portatore di visioni alternative. Chi entra in contatto con queste contrapposizioni, magari provenendo da esperienze lontane dalla fede, sovente non trova disponibilità al confronto ma l’opposto: le discussioni si fanno violente, la cerchia di opinioni omogenee si autoalimenta, si alzano barriere.
Quando il sistema era per lo più broadcast (lo schema uno-a-molti) protestare era uno dei pochi modi con cui il pubblico poteva farsi sentire e difendersi da forzature e manipolazioni dei media. Oggi, in una dinamica conversazionale, denunciare equivale a diffondere, protestare equivale a dare visibilità . I contenuti di contrapposizione tendono a diffondersi e alimentarsi tra persone con visioni omogenee, gli algoritmi delle varie piattaforme colgono questo insieme di interessi e lo segnalano a loro volta a coloro che sono d’accordo. Si crea così una specie di circolo vizioso che rende i contenuti di scontro più visibili e spinge le persone a inserirsi in tale registro di protesta (qualcuno ne approfitta anche per ottenere popolarità ).
Una vera e propria reazione a catena al ribasso: mentre si diffondono contenuti di denuncia, perdono visibilità le proposte; mentre si segnalano i cattivi esempi, si spostano in secondo piano le storie positive; la voce di chi ispira al bene è sovrastata dalla stigmatizzazione del male. Con il rischio che, animati dall’intento di correggere e difendere, ci dimentichiamo di nutrire, di ascoltare e di entrare in relazione con l’altro.
Oltre l'utilitarismo
Cosa si può fare? In questo senso, la via indicata da Papa Francesco nell’ultimo Messaggio per la Giornata delle Comunicazioni sociali è particolarmente attuale. Corrisponde a un’esigenza profonda che l’ambiente digitale sta maturando. Molti analisti, infatti, concordano su un punto: lo scenario della comunicazione digitale, per il suo stesso funzionamento, ha bisogno di persone capaci di valorizzarne le potenzialità relazionali, smorzando le derive deteriori.
In Rete, c’è un grande bisogno di persone capaci di abbattere i muri tra gruppi coesi e contrapposti.
Si tratta anzitutto di superare la visione utilitaristica della comunicazione. Comunicare non è una tecnica per ottenere risultati (anche a fin di bene) ma significa entrare in relazione, dove l’incontro e il confronto sono l’occasione per valorizzare l’unico fine: le persone stesse. Abbattere i muri non è un’azione ma una relazione: la barriera cade quando ci si concentra sulle persone che sono al di qua e al di là della divisione.
Limitarsi a inveire contro il male o a denunciarlo è troppo poco e comunque insufficiente. Tra l’altro, come abbiamo visto per le dinamiche degli algoritmi, c’è il rischio che la denuncia non raggiunga l'altro, giacché tende a diffondersi tra chi è già convinto e a escludere chi non è d’accordo. Ogni giorno, invece, abbiamo l’occasione di incontrare centinaia di persone sui social mentre esprimono le loro idee, le loro emozioni, anche dovute alle loro ferite e sofferenze. Ascoltiamo questo flusso di umanità per cercare l’incontro?
La Rete non esiste, la Rete siamo noi
“Com’è bello vedere persone impegnate a scegliere con cura parole e gesti per superare le incomprensioni”, scrive Papa Francesco nel Messaggio di quest’anno. È qualcosa che ci richiama all’origine, al vero e autentico desiderio che muove ogni comunicazione: costruire legami con gli altri. Chi si impegna ad ascoltare prima di proporre, diventa capace di guardare alle persone più che ai concetti contrapposti. Di solito è così che si crea la possibilità di stabilire e coltivare legami, che è da sempre l’unica strada pienamente umana per incontrare ciò che è più vero.
Abbattere i muri è qualcosa che ha a che fare con l’umanizzazione dell’ambiente digitale. A questa “missione umanizzatrice” dobbiamo educarci ed educare gli altri. Ognuno al suo livello: in famiglia, a scuola, in parrocchia. Non è una pia pratica edificante ma una prospettiva concreta ed efficace: la qualità della Rete oggi dipende da noi, dal modo in cui ci poniamo in essa. Il web non esiste in sé, il web è l’insieme delle persone che lo abitano.
Si potrebbe proporre un elenco minimo di propositi: prima di intervenire, ascoltare ciò che viene dagli altri nella conversazione, considerando anzitutto la persona reale che sta dietro a quelle idee che sono state digitate su una tastiera. In questo modo si diventa rilevanti e consapevoli, perché ci si impegna a dare risposte elaborate non preconfezionate e perché si incontrano temi, domande e prospettive che spesso noi stessi non avevamo considerato. Poi, per ogni protesta o denuncia (ce ne sarà anche bisogno ogni tanto), ognuno dovrebbe diffondere una quantità elevata di contenuti costruttivi, in modo da mantenere una proporzione capace di contrastare l’effetto moltiplicatore del flusso negativo.
E ancora, occorre curare le proprie connessioni e le proprie timeline, correggendo la tendenza a chiudersi in gruppi omogenei, per cercare il contatto con interlocutori validi, al di là che siano del nostro giro o che la pensino come noi.
Infine, uno spunto tra tutti: cercare l’incontro con i più lontani, quelli meno favorevoli, quelli al di là del muro. Abbiamo una buona notizia da dare, il Vangelo: sarebbe assurdo se non avvertissimo il desiderio di raggiungere, grazie alla Rete, soprattutto quelli che non l’hanno mai sentita. Il campo è grande e sterminato, e più che di battaglia ha bisogno di esser visto per quello che è: un terreno da arare.
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